Una vittoria così schiacciante del governo Maduro – 17 governatori su 22 conquistati dal Psuv, il Partito Socialista Unito del Venezuela, più uno in bilico, nello Stato di Bolívar – probabilmente non se l’aspettava nessuno. Tanto più che l’affluenza alle urne, superiore al 61% (in un Paese in cui il voto non è obbligatorio) è stata molto più alta di quanto era stato previsto e le operazioni di voto si sono svolte senza incidenti, in un clima tranquillo.

L’opposizione, l’ha motivata alla sua solita maniera: gridando alle frodi e preparandosi a non riconoscere i risultati. Ma stavolta è ancora più difficile prendere sul serio la denuncia, dal momento che l’affidabilità del sistema di voto elettronico è stata sottoposta nei giorni precedenti a ben 14 revisioni, avallata da tutti i partiti politici e nuovamente verificata durante la giornata elettorale tanto dai singoli elettori quanto da osservatori internazionali. «Non è possibile alcuna manipolazione dei dati – ha spiegato la dirigente del Consiglio nazionale elettorale Socorro Hernández – perché i tecnici designati dai singoli partiti conoscono il software e tutte le fasi del processo. Quando vi sono molti occhi a controllare, la sicurezza è garantita».

A spiegare la vittoria del governo è, più semplicemente, il fatto che nulla di ciò che ha portato avanti l’opposizione ha pagato: né la violenza terrorista, né le invocazioni all’intervento straniero, né la richiesta di sanzioni internazionali – a fronte delle tante privazioni già sofferte dalla popolazione venezuelana – né il sistematico boicottaggio del processo di dialogo, in un Paese affamato di tranquillità e di pace.

A cui si aggiungono le profonde divisioni esistenti tra le diverse formazioni di destra, con i loro confusi e contraddittori messaggi all’elettorato.

Una débâcle, quella della Mesa de la Unidad Democrática (la Mud, variegata e litigiosa colazione dei partiti di opposizione) ancor più clamorosa di fronte alla vittoria strategica riportata dal governo nello Stato di Miranda, storica roccaforte della destra governata finora dal plurisconfitto candidato presidenziale Henrique Capriles Radonski. Gli sarebbe dovuto subentrare Carlos Ocariz, uno dei più accreditati candidati della Mud alle prossime elezioni presidenziali, previste por ahora alla fine del prossimo anno, ma la sconfitta alle regionali – con il 46% dei voti, contro il 53% dell’avversario del Psuv Héctor Rodríguez – rischia di costargli cara.

Unica consolazione per la Mud, la vittoria negli Stati di frontiera con la Colombia, come Zulia, Táchira e Mérida, dove non solo dilagano i traffici illeciti, ma si registrano anche le tensioni più gravi tra i due Paesi. È da qui – temono i chavisti – che potrebbe partire un eventuale intervento militare statunitense in Venezuela.

Un timore non così infondato, dal momento che non sono poi molte le carte che restano da giocare per rovesciare il governo Maduro: o riprendere la strada della destabilizzazione mirando magari alla costituzione di un governo parallelo – come auspicato dal segretario generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luis Almagro – soprattutto puntando sull’intervento «umanitario» degli Usa e dei loro fedeli vassalli, o decidersi finalmente a negoziare con il governo, dando seguito al processo di dialogo iniziato nella Repubblica Dominicana con la mediazione del presidente dominicano Danilo Medina e dell’ex primo ministro spagnolo José Luis Zapatero.

Ma se l’obiettivo del dialogo è quello di raggiungere un accordo di coesistenza tra governo e opposizione – quindi anche tra l’Assemblea nazionale costituente voluta da Maduro e l’Assemblea nazionale controllata dalle destre – per traghettare il Paese fino alle prossime presidenziali, la Mud è probabilmente troppo divisa al suo interno per impegnarsi seriamente su questa strada. E questo per il semplice motivo che, come ha affermato Luis Vicente León della società Datanálisis, agenzia di sondaggi vicina alla destra, con il dialogo «l’opposizione può ottenere diverse cose, ma non la destituzione di Maduro». Cioè il solo e unico scopo perseguito dall’oligarchia venezuelana da quando Hugo Chávez ha avviato la sua rivoluzione bolivariana nel 1999.

Un’alternativa – quella tra la via della destabilizzazione e la via del negoziato – che si ripropone anche a livello internazionale, con il blocco, costituito dagli Stati Uniti e dai suoi alleati nell’Oea e in Europa, interessato a un isolamento politico-diplomatico di Caracas (in vista, per l’appunto, di un possibile intervento militare) e il blocco, formato dai governi progressisti latinoamericani, da un nutrito gruppo di alleati del Venezuela in sede Onu e anche dal Vaticano, che sostiene con convinzione la via del dialogo.