Che Maduro abbia invitato a Caracas – «in privato, in pubblico o in segreto» – l’inviato speciale degli Usa per il Venezuela Elliot Abrams non è sorprendente: aveva già rivolto l’invito a Mike Pompeo a gennaio, dicendosi anche disponibile a sostenere con Trump «un dialogo franco». Se Abrams «vuole riunirsi con me, che dica quando, dove e come e io verrò», ha detto Maduro in un’intervista di giovedì all’Ap, affermando di sperare ancora di poter incontrare Trump. Stupisce invece che Abrams abbia tenuto due colloqui segreti con il ministro degli Esteri Jorge Arreaza: il primo, più minaccioso, il 26 gennaio, il secondo, più disteso, l’11 febbraio, quattro giorni dopo aver detto che «non era più il momento di dialogare».

Di certo, se lo scopo degli incontri era negoziare la resa di Maduro, Abrams resterà deluso. Nell’intervista all’Ap, il presidente ha assicurato di non avere alcuna intenzione di dimettersi, promettendo di risollevare l’economia «se Trump toglierà le sue mani infette dal Venezuela» e ribadendo la posizione sulla presunta assistenza umanitaria: «Gli Usa rubano miliardi al Paese e offrono briciole in aiuti».

Ma se i due incontri con Arreaza, non smentiti dalla Casa bianca, rivelano un minimo di insicurezza da parte Usa, Abrams qualche problema ce l’ha anche a casa sua. Dove, nell’audizione di mercoledì scorso presso la Commissione esteri della Camera, è stato pesantemente contestato per il suo coinvolgimento nello scandalo Iran-Contra e in stragi come quella di El Mozote, dove, nel 1981, circa 800 persone furono massacrate dal battaglione Atlacatl, corpo scelto dell’esercito salvadoregno addestrato negli Usa. A metterlo con le spalle al muro è stata la democratica Ilhan Omar, la prima donna di confessione musulmana a occupare un seggio al Congresso: dopo averlo interrogato proprio su El Mozote – accusandolo di aver liquidato come «propaganda comunista» i rapporti sulla strage e definito un «successo favoloso» la politica Usa in El Salvador – lo ha incalzato sul Venezuela. Con domande del tipo: «Appoggerebbe, sì o no, una fazione armata coinvolta in crimini di guerra, di lesa umanità o di genocidio se lo ritenesse utile agli interessi statunitensi, come fece in Guatemala, El Salvador e Nicaragua?». A cui Abrams, visibilmente alterato, ha risposto evidenziando lo sforzo degli Usa «per restaurare la democrazia» in Venezuela.

Ma il tempo gioca a favore di Maduro, tanto più di fronte all’ancora pieno sostegno della Forza armata bolivariana ribadito dal titolare del Comando Estratégico Operacional della Fanb, Remigio Ceballos.

Ogni giorno che passa infatti, l’azione di Guaidó rischia di perdere più spinta, come emerso anche dal flop delle manifestazioni dell’opposizione di martedì scorso. Il fatto è che, passate tre settimane dalla sua autoproclamazione a presidente, il suo presunto governo parallelo resta realtà virtuale, mentre, nella realtà vera, Maduro continua senza grandi scosse a governare. Senza contare che le dichiarazioni di Guaidó su intervento militare, guerra civile e sanzioni gli hanno allontanato parte della popolazione ostile al governo ma contraria alla guerra. È per lui decisivo l’appuntamento del 23 febbraio, giorno annunciato per l’ingresso degli aiuti «umanitari»: senza un evento significativo, la sua credibilità potrebbe davvero cadere in picchiata.