Se sarà l’opposizione a vincere le elezioni parlamentari di domani, Nicolás Maduro si dimetterà. Così ha detto e ripetuto il presidente, affidando il suo «destino politico» al popolo bolivariano: «Siamo qui tramite il voto e solo tramite il voto ce ne andremo». Maduro, però, sa di non correre alcun rischio, a fronte della scelta di gran parte dell’opposizione di disertare le elezioni.

IL VERO PERICOLO, per il governo, non viene dalla quantità di voti che riusciranno a ottenere i suoi oppositori, ma dai dati dell’affuenza. Perché è evidente che una bassa partecipazione offrirebbe all’estrema destra astensionista la possibilità di cantare vittoria, prolungando la farsa del governo ad interim dell’autoproclamato Guaidó. Quando in realtà un alto astensionismo indicherebbe solo un diffuso disincanto verso il governo Maduro, non certo il consenso per un’opposizione screditata tenuta in piedi solo dal sostegno degli Usa e dei loro alleati, grazie a cui, peraltro, ha potuto dedicarsi a un sistematico saccheggio dei beni venezuelani all’estero.
E se tutti concordano che un’affluenza del 74% come quella delle ultime parlamentari del 2015 è inarrivabile – sia perché allora l’opposizione era al completo, sia perché la disillusione politica è senza dubbio cresciuta -, l’obiettivo potrebbe essere un dato intorno al 45%, come alle presidenziali del 2018.

C’È QUINDI MOLTA ATTESA per l’appuntamento elettorale che domani deciderà la conformazione della nuova Assemblea nazionale, la 25ma elezione in 21 anni, preceduta da 22 vittorie e due sconfitte: il referendum di Chávez sulle riforme costituzionali nel 2007 e le parlamentari di cinque anni fa, quando l’opposizione strappò al governo bolivariano la maggioranza dell’Assemblea nazionale, trasformandola nel braccio golpista del Dipartimento di Stato Usa.

Ed è proprio allo scopo di restituire all’An il suo ruolo istituzionale che il popolo venezuelano dovrà scegliere domani tra i 14mila candidati di 107 organizzazioni politiche (di cui ben 98 riconducibili all’opposizione) che si disputeranno i 277 seggi parlamentari, quasi raddoppiati rispetto ai 165 originari al fine di assicurare una maggiore pluralità politica. Una misura che si aggiunge alle altre nuove garanzie elettorali negoziate dal governo con il settore dell’opposizione moderata, che tuttavia non sono bastate all’Unione europea per riconoscere la legittimità del processo elettorale e per inviare i propri osservatori.

SARANNO ANCHE LE PRIME elezioni in cui il partito di governo, il Psuv (Partido Socialista Unido de Venezuela), correrà quasi solo: l’unità del Gran Polo Patriótico è infatti venuta meno con la nascita dell’Alternativa Popular Revolucionaria, interna al chavismo ma critica del governo Maduro, la quale parteciperà alle elezioni dietro l’insegna del Partido Comunista. E benché la nuova forza, un’alleanza di partiti e movimenti sociali che guarda oltre il voto di domani, non intenda rompere con Maduro, certo non risparmia accuse al governo: sugli accordi di vertice con la borghesia, sullo smantellamento delle imprese statali, sull’inefficienza delle politiche in difesa dei settori più poveri, su una politica monetaria al servizio degli interessi del capitale, sulla cessione delle ricchezze del paese alle transnazionali e, in generale, sull’abbandono del sogno di Chávez. Tutte accuse liquidate dal governo come «scemenze» di una «sinistra infantile».

QUANTO ALL’OPPOSIZIONE GOLPISTA, quale che sia il risultato delle elezioni, ha già pronta una contromossa, attraverso una consultazione popolare che si terrà dal 7 al 12 dicembre intorno a tre questioni: la fine dell’«usurpazione» di Maduro con la convocazione di «libere» elezioni, il disconoscimento delle parlamentari e l’accompagnamento della comunità internazionale per «riscattare la democrazia» (non è chiaro se attraverso nuove sanzioni o un intervento militare). Una consultazione che si svolgerà on-line e solo l’ultimo giorno in presenza, e la cui affidabilità è fin troppo facile da immaginare.