I titoli di Mario Isnenghi sono spesso spiazzanti. Quello appena uscito per Marsilio («nodi», pp. 398, e 19,00) è Se Venezia vive Una storia senza memoria: come può esserci una storia senza memoria storica? Ma basta aprire pagina e scorrere il preambolo per capire lo scopo del libro e quindi la sfida del titolo. «Il re della festa non è Thomas Mann». Di Venezia si parla, ancora una volta, ma di una Venezia sciolta dai veli funerei («città della memoria», «città morta»), una Venezia che, sia pur per vie traverse, si trasforma, si mette al passo coi tempi, reagisce al degrado e all’oblio.
Però, sempre di Venezia si tratta. La città costruita sull’acqua, che nell’acqua si specchia come Narciso, innamorata di se stessa, ignara del labirinto che si snoda alle sue spalle e che subisce un lento degrado a cui si stenta a porre rimedio. E non si può scindere Venezia dai veneziani doc, che a loro volta si specchiano nella loro città, in una sicurezza che elude e trascura le iniziative che mirano al rinnovo, al cambiamento, insomma a una vitalità diversa che non sia quella del turismo di massa, le cavallette che la invadono e la deturpano. Noi fummo, noi siamo, noi saremo. E invece no: i palazzi che si affacciano sul Canal Grande sembrano piegarsi sempre più verso quell’acqua che minaccia Venezia da ogni parte e finirà per inghiottire i suoi splendori: storia e memoria comprese.

Dalla fine dei Dogi
Memoria senza storia. Nel titolo, una sfida. Perché la storia esiste e il dopo, dalla fine dei dogi nel 1797, «non è stato solo nostalgia e lutto»: non è stato eretto un altare al passato, vi sono stati tanti «presenti», fatti reali, «avvocati rivoluzionari e cavafanghi imprenditori, rocciosi patriarchi e poeti ideologizzanti… grandi personalità ebraiche e donne in carriera». Una dimostrazione di vitalità e una volontà di cambiamento che bisogna inseguire nel labirinto veneziano attraverso le dispute burocratiche, la diffidenza dei veneziani, le proteste, i brontolamenti, le sorde opposizioni…
Nel primo capitolo, dal titolo programmatico «Curriculum mortis», Isnenghi passa in rapida rassegna quattro testimonianze letterarie, mettendo in rilievo per ciascuna il riflesso di quella storia , in verità pesante e complessa, che vede Venezia alle prese con due imperi, austriaco e francese, e quindi la reazione che a questa situazione oppongono personalità come Foscolo e Nievo, il trascurato Pellico, il quasi ignorato Giacinto Gallina. «La ferita originaria viene da Ugo Foscolo», sostiene l’autore, che decifra nella persona e nelle vicissitudini di Jacopo Ortis (e nelle alterne vicende della stesura de Le ultime lettere) «il gesto di protesta» che trova espressione nel duplice suicidio, che è suicidio per amore ma anche suicidio politico. Alla politica Pellico (Le mie prigioni) dichiara subito la sua rinuncia, lo Spielberg lo ha piegato ed egli si oppone a ogni violenza piegandosi a una rassegnazione cristiana – che però serve ad anticipare un futuro in cui «il cristianesimo farà da collante transnazionale». Se Foscolo appare più legato alle vicende veneziane, Nievo, che Isnenghi predilige, offre invece nelle Confessioni d’un italiano «l’affresco più vasto e comprensivo», sulla linea portante del Risorgimento: anche qui Nievo si specchia nel suo protagonista – è di Carlo Altoviti che parliamo –, l’ottantenne (ricordare il primo titolo del libro: Le confessioni di un ottuagenario) che ha come traguardo l’idea di nazione.

Il teatro di Gallina
Nella seconda parte del libro, una folla di personaggi in un «avanzamento sincronico di trame molteplici» si dispiega in un viaggio in Italia che non è un viaggio di istruzione se non nella prospettiva di una nascita dell’Italia stessa. Per chiudere con il teatro reazionario di Giacinto Gallina, teatro popolare, spesso in dialetto e quindi molto diffuso, teatro di «Momolo e Menego, Toni e Bepi, Betina e Catina», di «botteghe, calli e campielli», di «piccole vite». Da Una famiglia in rovina, a Le serve al pozzo, al famoso Zente refada fino a La chitara del papà e all’altrettanto celebre La famegia del santolo, è la realtà minore che si impone alla gente, con «l’etica di restare ciascuno al proprio posto», di essere un «vero veneziano», è la Venezia dei gondolieri che si oppone al progetto dei vaporetti… Gallina insomma «sparge amarezza e disincanto in tutte le sale teatrali di Venezia». (Eppure, nonostante i sintomi di rinnovata vitalità, in qualunque modo si manifestino, la Venezia di fondo è questa, adagiata su stessa, Venezia allo specchio, nobili e popolani che si incontrano per le calli, fummo siamo e saremo, muri sbrecciati che restano tali, Venezia splendore e rovina, la coesistenza è comunque un segno di distinzione).
I segni vitali vengono da «fuori», precisamente da Pellestrina, ed è il tema del secondo capitolo: «Fare ponti, ricominciare la storia». Perché la storia, reale, concreta, incomincia con i ponti. Un lungo e dettagliato capitolo sulla ripresa imprenditoriale, sulle trasformazioni , le innovazioni, le nuova creatività che si sviluppa ai margini della «città morta», all’ombra dei sontuosi palazzi, delle famose chiese, del Campanile per eccellenza, del Palazzo Ducale: Isnenghi dà conto di tutte le dinamiche che costituiscono il suo «contravveleno» alla «morte di Venezia». Anche la scrittura cambia: non più quella particolare «leggerezza calviniana» con cui trascorre di solito sugli eventi, grandi e piccoli, storia e microstoria, unendo la riflessione, il giudizio alle divagazioni personali, quel «trascorrere» che però lascia sempre un segno preciso. No. Qui Isnenghi ha affilato la unghie e non ha trascurato nulla, e inizia con uno squillo di tromba: vengono dunque «uomini nuovi, da cavafango a costruttori e impresari edili che incidono su strutture e volto della città, e anche così si modificano le gerarchie e si allarga il bacino sociale di un pensiero e di un’azione quotidiani». E dunque, ponti: ponti di ferro e battelli a vapore, per prima cosa. E la battaglia non è facile, in fondo questi uomini nuovi sono anche «I barbari che vengono da dentro» e minacciano il volto sacro della Città eletta. Poi le ferrovie, che culminano con la Mestre-Venezia, un evento eccezionale: Venezia non è più isola, niente sarà più come prima. Si riapre la Fenice, trionfa il teatro d’opera, ma anche il teatro di prosa. Uno spazio particolare per «l’invenzione del Lido», ma prima che il Lido diventi il simbolo di tutti i lidi del mondo, la storia quasi incredibile dei bagni in laguna che precedono la conquista della spiaggia: un processo, quest’ultimo, lento ma perseguito tenacemente per fare di quell’isola lunga e stretta in mezzo alla quale si elevava una duna portata dal mare, il centro di attrazione locale e internazionale che divenne poi. Le iniziative si moltiplicano con l’istituzione di palestre, della società di canottaggio, del tiro a segno a San Nicolò del Lido, del piccolo porto per le gondole ( il bacino Orseolo) e non dimentichiamo il porto commerciale della Marittima, importante quanto la ferrovia. E poi i grandi alberghi, l’Excelsior moresco, il Des Bains «casone bianco» (fino all’arrivo di Thomas Mann…).

L’arte del vetro muranese
Su tutto dominano i nomi: nomi di «uomini nuovi», piccoli imprenditori sconosciuti, ma anche ingegneri, architetti, affermati industriali, con l’intervento qua e là di patrizi illuminati. Citerò un po’ alla rinfusa, a partire dai Busetto di Pellestrina, all’ingegner Giovanni Milani, Pietro Paleocapa, Carlo Cattaneo, Carlo Ghega. E ancora Costantino Reyer e Pietro Gallo per la ginnastica, Giorgio Manin per il tiro a segno, e nomi altisonanti come Pietro Venier e Alessandro Marcello per la Compagnia della vela. L’arte del vetro muranese è sostenuta dai fratelli Apollo e Luciano Barbon. Ma grande spazio è riservato a Fisola (Giovanni Busetto Fisola), «il grande personaggio plebeo, un capitalista che viene dal popolo», quel Fisola il cui nome resta legato per sempre all’industria dei bagni in laguna e poi al Lido. Di fatto è lui l’inventore del Lido, con i bagni per ricchi e bagni per poveri, a sinistra militari e popolo, a destra veneziani doc e poi l’internazionalità. Ma al nome di Fisola va unito quello di Nicolò Spada, «il Fisola dei ricchi»: se Fisola crea il Lido, Spada lo «lancia» come isola del turismo e della vacanza internazionale, giungendo a spostare l’obiettivo dei visitatori abituali dalla Venezia storica, non solo, ma anche a fare dell’isola la meta abitativa dei veneziani. Al Lido si può costruire, lo afferma anche Diego Valeri, il difensore del colore locale e dei campielli, ma soprattutto lo sostiene D’Annunzio. D’Annunzio! Dalla Casetta rossa dove sta dettando il suo Notturno, l’«orbo veggente» pensa a un Lido dove costruire: nasce il Gran Viale come centro e cuore dell’isola e le vie i cui nomi sono ispirati dal grande poeta: nomi di dogi e ammiragli della Serenissima. Crescono ville e villini stile Liberty, molti veneziani si spostano al Lido. A coronamento di tutto questo sommovimento carico di attività e di vita, prende corpo il progetto di Porto Marghera che porta i nomi di Spada, Volpi e Cini.
Dalla terra all’aria: il dinamismo inventivo si sposta ora alla conquista del cielo: una pista per aerei a San Nicolò, il primo dirigibile a Campalto, esibizioni aeree sulla spiaggia, un raid irredentista da Trieste a Venezia, il «giro della morte», la squadriglia San Marco, il primo volo notturno, gli aerostati… La rassegna continua a ritmo incalzante, direi appassionato se questo non contraddicesse l’abituale distacco dell’autore. Ma Isnenghi è veneziano e anche la sua ricostruzione di una Venezia viva e operante è ammalata di memoria: io c’ero, io ho visto, contro i nostalgici erige un muro di pietra, le dighe, i Murazzi, contrasta con nomi e fatti l’idea di una città che ricade su se stessa, c’è una specie di ansia febbrile in questa enumerazione su cui aleggia, temporaneamente sconfitto lo «spetémo, vedémo», tipico dei veneziani.

Sfida a Thomas Mann
Sull’onda di questa rievocazione l’autore continua, riprendendo storie già sfiorate per allungare i tempi quasi fino ai nostri giorni, e sempre in dichiarata sfida con quella «morte a Venezia» di Thomas Mann su cui continua a ritornare, quel Mann che, da puro letterato, «prescinde dalle cose», e va decisamente relegato al ruolo letterario (eppure ha fatto storia…). La guerra imprime un rinnovato slancio operativo a Venezia con Piero Foscari, Alberto Treves, Giuseppe Volpi, Attilio Bisio e le società SVAN (Società Veneta di automobili nautiche) e SADE (Società adriatica di eletttricità), la produzione dei mas per i raid di D’Annunzio e Costanzo Ciano (Memento audere semper), confermando il ruolo capitale di Venezia in queste realizzazioni audaci e innovative. Altro punto di forza è l’aviazione, la cui storia continuerà nel dopoguerra con il rilancio delle Officine aeronavali al Lido e poi a Tessera, con Umberto Klinger e Giorgio Cini: ma è nel dopoguerra che, proprio nei luoghi della rinascita, incominciano i segni della crisi.
Mi sono dilungata sulla parte forse meno conosciuta della «rinascita» di Venezia, dopo e contro la sua presunta «morte». Sono costretta solo a soffermarmi «di volata» sulle altre parti di questo libro vasto e denso di particolari frammisti a osservazioni e analisi ricche e penetranti. Come l’«a solo» dedicato a D’Annunzio, con l’esame approfondito dei suoi romanzi, da cui emerge una figura e uno spirito «nuovo» anch’esso rispetto alla più comune e diffusa immagine letteraria a cui siamo abituati (pagine bellissime che invitano a rileggere i romanzi dannunziani da un diverso punto di vista). E poi la vicenda artistica, dall’Accademia di Belle Arti alle gallerie (Ca’ Pesaro, Bevilacqua La Masa) con i nomi di Leopoldo Cicognara e Nino Barbantini (che accoglierà a Ca’ Pesaro i protofuturisti), la rivisitazione di un Canova classicista ma non classico e più moderno di quanto si è soliti pensare, e poi la musica con il ruolo chiave della Fenice che «si connette a un meta-pubblico nazionale» ed è «sede illustre di esordi e itinerari operistici». L’Ernani di Verdi esordisce alla Fenice («Si ridesti il leon di Castiglia!») e Francesco Maria Piave, librettista di Verdi, è di Murano. A Riccardo Selvatico («il Cacciari di allora») si deve l’«invenzione» della Biennale, che incrementa l’industria culturale aprendo la via ai festival, del Cinema, del Teatro, della Musica. Nasce a Burano la omonima Scuola con i pittori Umberto Moggioli, Pio Semeghini, Carlo Dalla Zorza. Per Emilio Vedova, discusso protagonista di una lunga stagione, una storia a parte. In ogni caso è ancora Venezia che, nell’immediato dopoguerra , «è la vivacissima capitale artistica dell’Italia».
Naturalmente il tutto si svolge sullo sfondo di correnti e rivolgimenti politici che lo storico ricostruisce con precisione e intreccia al suo romanzo-verità che potrebbe intitolarsi «la vita a Venezia», in opposizione al tanto odiato Mann, ma la presentazione diventa impossibile, tanto varrebbe riprodurre il libro per intero. D’altronde recensire un libro di Mario Isnenghi è sempre difficile, per la quantità di informazioni e l’intreccio di commenti – questo lo abbiamo già detto – ma, al di là del fitto susseguirsi di considerazioni e fatti, questo è un libro speciale, per i veneziani e non, un libro pulsante, onirico, con tratti epici e un minimalismo affettuoso e partecipe, con ritratti e schizzi indimenticabili. Un libro da leggere e rileggere per cogliere particolari trascurati, osservazioni e considerazioni puntuali ed estrarle da un contesto a volte troppo denso e trascinante.
Detto questo, dopo la macro-micro vicenda veneziano/lidense, si passa alla storia (questa sì) vera e propria che, pur magistralmente ricostruita, appartiene a un quadro più ampio e più conosciuto, anche se ha come punto di riferimento Venezia. Del capitolo «Fiammate identitarie», mi soffermerò brevemente sul paragrafo della Resistenza.

Turcato e Tonetti
La storia della Resistenza a Venezia è poco nota, alcuni dicono che «a Venezia non si fa nulla». E invece no. Solo che è una Resistenza «alla veneziana»: in parte spettacolo, in parte azione. Da isolare le figure di Giuseppe Turcato in opposizione a Giovanni Tonetti, il «Conte rosso». Figura complessa, quella di Turcato, ma di forte rilievo, fautore di una militanza segreta, nascosta, che si rivela in colpi di scena memorabili come la «beffa del teatro Goldoni» – quando Cesco Chinello irrompe nel teatro in piena rappresentazione pirandelliana per arringare un pubblico dove, nelle prime file, siedono militari tedeschi e fascisti. È «l’episodio più famoso e più veneziano della Resistenza veneziana». Ed è puro teatro, anche se l’oratore improvvisato rischia la vita. Giovanni Tonetti , altra figura complicata e in parte sfuggente, è invece l’uomo degli attentati: è lui l’ispiratore del sanguinoso episodio di Ca’ Giustinian, una specie di via Rasella veneziana. Sono gli anni 1944-’45, gli anni più duri che alimentano la violenza (Dorsoduro, fondamenta della Toletta, Cannaregio, davanti al cinema Italia). Ma in verità la lotta armata non attecchisce, «lasciando prevalere l’aver subito vittime sull’averne fatte» (da ricordare il film di Gianfranco De Bosio, Il terrorista (1975), i cui protagonisti riecheggiano appunto Giovanni Tonetti e Kim Arcalli).
«Vite a Venezia» meriterebbe un’edizione a parte, e non solo per i veneziani anche se è qui che il veneziano Isnenghi canta la sua Venezia, le sue famiglie storiche, il ruolo dei suoi patriarchi (per tutti, La Fontaine), le donne protagoniste di famosi salotti, autrici di memorie e di diari (da Letizia Pesaro ad Amalia Pincherle Rosselli, a seguire Maria Pezzè Pascolato, Elisa Majer Rizzioli, Margherita Sarfatti). Ma è sul campo Santa Margherita che mi voglio soffermare, un vero gioiello di rievocazione e di scrittura: Santa Margherita, il «mio» campo, la mini-repubblica nel grande regno della Serenissima, il tinello del salotto di piazza San Marco: che è piazza e non campo, scena di rappresentanza e non vita popolare. Qualche «foresto» osa chiamare «piazza» i campi veneziani. L’autore avverte: «Una simile sciatteria non va consentita». Campi e campielli, isole nell’isola («Venezia è un arcipelago»), ognuno con la sua piccola-grande vita. Campo San Polo, campo Santo Stefano, Santa Maria Formosa, Santi Giovanni e Paolo…, nessuno però è paragonabile a campo Santa Margherita, che fa parte a sé: teatro di mutamenti interni, di vite minime ma vissute con pienezza: quante siore Maria ho conosciuto , che non hanno mai varcato i limiti del campo, eppure questo campo del popolo ha piena coscienza della piazza, anche se un labirinto di calli e callette lo divide dalle imponenti Procuratie e dallo storico Campanile. Con le sue siore, le sue osterie, il suo dialetto, e non dimentichiamo «Pastassuta», personaggio tutto da leggere, campo Santa Margherita è un grande teatro all’aperto, reso ancor più popolare dalla vicinanza della Marittima con le attività lavorative e di Ca’Foscari con l’afflusso degli studenti, mentre l’averne fatto anche sede del Carnevale, ne smorza l’immagine politica. «Parlando di campo Santa Margherita si entra in una sorta di atemporalità intrecciata alla temporalità ridotta e cronistica di ogni giorno, perché in fondo Santa Margherita è questo, uno spazio-tempo che figura esserci sempre stato e che ciascuno di noi vive».
Qui mi fermo. Non mi interessa il Mose. Credo nelle dighe, nei Murazzi, nella pietra forte e fedele. Ma non posso tacere la dedica del libro, originalissima e a prima vista incomprensibile: Al Campiello del Remer. Il campiello è ormai entrato nel lessico universale, anche un cinese sa compitare la parola. Ma il Remer? È il fabbricatore di remi, testimonianza e residuo di una stirpe di artigiani specializzati che sta scomparendo se non è già scomparsa del tutto. In questa dedica c’è tutto il presente di Venezia (l’immortale campiello), e il suo passato (il Remer).