Venezia, il lato dark della fotografia
Laetitia Ky, courtesy l’artista e Padiglione della Costa d’Avorio
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Venezia, il lato dark della fotografia

Biennale Arte 59 Grand Tour di scatti, dal padiglione del Sud Africa alla Nuova Zelanda, alla fino al Canada

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 16 aprile 2022

I più felici sono proprio i tre bambini, malgrado le loro teste siano state attaccate a casaccio. La vecchia Lolita (quella cattiva delle scatole di carne marcia) li aveva fatti a pezzetti e messi nella grande gabbia del pappagallo, appendendo le loro teste nell’armadio. Se non fosse stato per l’Indio Verde che aprì l’armadio per rubare il suo scialle, chissà se qualcuno avrebbe mai scoperto quelle teste piangenti. Lui pensò di riattaccarle ai corpi, ma era così stupido che incollò la testa di Tomasina alla mano, quella del piccoletto sotto il piede e quella di Vincent sul sedere. Non sarà un lieto fine canonico ma la felicità di questi ragazzini nella riappropriazione di sé è autenticamente surreale, non meno della storia di George che mangia il muro della sua stanza, di Ofelia con la gelatina di fragole con dentro l’avvoltoio o di John Senzatesta: un’altra testa volata via e riattaccata al contrario con la gomma da masticare.

L’immaginario noir di Leonora Carrington (1917-2011) nel libro Il latte dei sogni, fonte d’ispirazione per la Biennale curata da Cecilia Alemani, consente tante libere associazioni soprattutto nell’esplorazione dell’inconscio tra sogni e incubi. Un po’ come le fotografie di Roger Ballen (tra i protagonisti di Into the Light, il padiglione del Sudafrica) e quelle di Nan Goldin che, con Louise Lawler, è alla sua prima partecipazione in Laguna. Sia in un caso che nell’altro, l’approccio immaginifico negozia il suo margine di vulnerabilità nel racconto della condizione umana scandito dalla griglia di disordine costruito. Ballen e Goldin sono i due estremi di un poema epico contemporaneo popolato, come suggerisce la scelta della curatrice, da figure artistiche (prevalentemente donne) vicine al surrealismo, tra cui Eileen Agar, Valentine Penrose, Dorothea Tanning, Bridget Bate Tichenor, Remedios Varo, ma anche da medium sensitive e spiritiste come Eusapia Palladino, Hélène Smith (reincarnazione, a detta sua, di Maria Antonietta) e Linda Gazzera scoperta dal medico-fotografo Enrico Imoda, autore del libro Fotografie di fantasmi (1912).

De Andrade e Douglas
La fotografia è presente nel Padiglione del Brasile, nell’installazione Com o coração saindo pela boca (Con il cuore che esce dalla bocca) di Jonathas de Andrade, insieme a sculture e al video che riflettono sul fallimento delle utopie, soprattutto nel contesto latinoamericano. Anche in Stan Douglas: 2011 # 1848 vengono affrontate tematiche politiche in cui l’artista di Vancouver, nelle quattro grandi foto nel padiglione del Canada ai Giardini (la videoinstallazione è ai Magazzini del Sale), mette a confronto gli avvenimenti del 2011 (dalla Primavera araba a Occupy Wall Street) con il 1848, anno della rivoluzione delle classi medie e lavoratrici europee contro i regimi assolutisti.

Sedira e Azoulay
In maniera diversa, ma analogamente associata a un’idea di archivio, è l’uso che fanno del linguaggio fotografico Zineb Sedira e Ilit Azoulay, rispettivamente nel padiglione francese e in quello israeliano. Tra realtà e finzione, attraverso film, fotografie, suoni, sculture e collage l’artista franco-algerina parte dal sodalizio intellettuale e artistico degli anni ’60 tra Italia-Francia-Algeria per porre l’attenzione sui temi di decolonizzazione, accettazione dell’altro e memoria in un confronto in cui la dimensione personale si riflette in quella collettiva.

Da un archivio dimenticato (attualmente conservato al L.A. Mayer Museum for Islamic Art di Gerusalemme) parte, invece, Azoulay in Queendom scansionando, elaborando e saldando su piastre metalliche le foto scattate compulsivamente dallo storico dell’arte ebreo austro-britannico David Storm Rice (nato Sigmund Reich) a vasi metallici medievali realizzati in Medio Oriente e quasi tutti finiti nei musei occidentali. L’arte come transizione dall’identità che le è tradizionalmente assegnata? Si chiede l’artista.

Camerun, Costa D’Avorio
Proseguendo sul tema Storie invisibili, nell’evento collaterale al Fondaco dei Tedeschi, della compianta Leila Alaoui vengono presentati i progetti fotografici Les Marocains e Crossings, mentre la fotografa Angèle Etoundi Essamba (nella collettiva Il tempo delle Chimere, padiglione del Camerun alla sua prima partecipazione alla Biennale di Venezia), attraverso una ricerca iniziata a metà degli anni ’80 prosegue la sua indagine sull’identità della donna africana rappresentata con declinazioni simboliche.

Anche la giovanissima reginetta del TikTok, Laetitia Ky (padiglione della Costa d’Avorio) rimanda ad aspetti simbolici come l’uso dei suoi stessi capelli per creare sculture, video e fotografie su cui interviene graficamente in cui focalizza l’attenzione su questioni di razza, genere e giustizia sociale. Fil rouge anche per Yuki Kihara, prima artista Pasifika (popolazione autoctona del Pacifico), asiatica e fa’afafine (nel linguaggio samoano indica il fluid gender che rientra nelle diverse identità culturali Mvpfaff) a rappresentare la Nuova Zelanda alla 59/a Esposizione d’arte di Venezia.

In Paradise Camp si parla di colonizzazione, stereotipi e pregiudizio partendo dall’immaginario esotico esportato in occidente da Paul Gauguin. Proprio il dipinto Due donne tahitiane (1889) è reinterpretato da Kihara in Two Fa’afafine (After Gauguin) che ristabilisce il giusto rapporto tra forza, orgoglio e consapevolezza.

 

SCHEDA

Cultura popolare contro i pregiudizi: Uganda a Venezia

L’Uganda partecipa la prima volta come padiglione nazionale a sé (a Palazzo Palumbo Fossati). Il curatore britannico di origini tanzaniane, Shaheen Merali, nella mostra «Radiance. They dream in time» presenterà le opere di due artisti di Kampala, Acaye Kerunen e Collin Sekajugo. Kerunen, impegnata socialmente, indaga l’attività artigianale locale delle donne ugandesi, esaltando anche le loro pratiche quali custodi delle paludi poiché elaborano un sapere sacro per la gestione ecologica. Sekajugo torna alla cultura popolare e all’influenza che deriva dalla corrente di riferimento globale, criticando i suoi numerosi pregiudizi attraverso culture visive, orali e digitali. Sekajugo lavora dal 2012 manipolando la comune immagine d’archivio per rivelarne i cliché intrinsechi e il concetto di privilegio, ampiamente conformati all’io occidentale. Provoca così un capovolgimento antropologico contemporaneo della cultura prevalente, facendo leva su un senso tutto africano di irriverenza e interpretazione ad hoc.

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