Anche se sono lontani gli anni targati Marco Muller quando il Festival di Venezia in quasi ogni sua edizione rischiava ed esplorava nuovi territori, presentando in competizione e nelle altre sezioni i più svariati lavori provenienti dall’estremo oriente, la Biennale resta comunque anche in questi ultimi anni un punto di passaggio per una manciata di cineasti orientali ormai affermati che con la mostra hanno instaurato un rapporto speciale. Saranno presentati in questa edizione due lungometraggi di due dei più famosi e riconosciuti registi giapponesi, Hirokazu Kore’eda e Takeshi Kitano, entrato definitivamente nell’elite cinematografica internazionale il primo, grazie ad una serie di opere minimaliste di grande tocco e fattura come Our Little Sister e After the Storm, dopo che era stato lanciato proprio a Venezia nel 1995 con Maboroshi/Maborosi, decisamente in calo il secondo dopo un inizio di carriera folgorante. Anche se Kitano era stato capace di sorprendere pubblico e critica con il suo debutto Violent Cop e soprattutto con Sonatine nel 1993, solo con il Leone d’Oro vinto nel 1997 con Hana-bi il regista giapponese si consacra a livello internazionale ed in patria riesce a staccarsi di dosso la patina di comico televisivo per cui era principalmente conosciuto. Nel 2010 con Outrage era tornato al genere che lo aveva lanciato, i film di yakuza, anche se inevitabilmente con meno irriverenza e freschezza, a cui fece seguito Outrage Beyond di due anni seccessivo. Dopo la mezza delusione con Ryuzo and the Seven Henchmen, occasione sprecata per affrontare con toni comici la vecchiaia di un gruppo di malavitosi e potersi reinventare come cineasta, il regista originario di Asakusa ritorna quest’anno a Venezia con l’ultimo film della trilogia, Outrage Coda, presentato fuori concorso e che sposta le vicende della guerra fra le due fazioni di yakuza in Corea del Sud.

Dopo storie che descrivevano l’ordinaria quotidianità, anche se si focalizzavano su particolari disfunzioni e sgretolamenti del nucleo familiare giapponese, Kore’eda con The Third Murder, presentato in concorso, si cimenta con un genere mai prima affrontato come il mystery. Con un cast ragguardevole, nei ruoli di protagonista Koji Yakusho e Masaharu Fukuyama, musicista strapopolare in Giappone che recentemente ha prestato il suo volto a molte ottime pellicole dell’arcipelago, e musiche originali dell’italiano Ludovico Einaudi, il film racconta la storia dell’avvocato Shigemori e del suo cliente Misuni, accusato di omicidio e a pochi passi dalla pena di morte. É significativo ricordare come in Giappone la pena capitale sia ancora attiva amministrata attraverso l’impiccagione.

Sarà in concorso anche Human Flow, l’ultima fatica del regista, dissidente ed attivista Ai Weiwei, un documentario giarato in 23 paesi, con cui Weiwei focalizza la sua attenzione sull’attuale crisi mondiale dei rifugiati e cerca di considerare la tragedia da un punto di vista globale ma anche seguendo e raccontando il dramma che questa crisi rappresenta per ogni singola persona che direttamente o indirettamente è costretto a viverla. Weiwei è così persona non grata nel suo paese d’origine che la notizia della partecipazione del suo film alla mostra è stata data dai media governativi senza nominare il suo nome, ma definendo il documentario solo come una coproduzione tedesco-statunitense. Al contrario è stato dato molto spazio a Angels Wear White di Vivian Qu, anch’esso in concorso ed anch’esso una coproduzione, sino-francese in questo caso. Qu è nota in ambiente festivaliero soprattutto come produttrice, Black Coal, Thin Ice diretto da Diao Yinan nel 2014 vinse l’Orso d’Oro a Berlino, ma ha anche al suo attivo un lavoro come regista, Trap Street del 2013. Angels Wear White è quindi il suo secondo lungometraggio, ambientato un un villaggio costiero della Cina, le due ragazzine protagoniste, dopo esser state aggredite da un uomo di mezza età in un hotel, devono vedersela con un ambiente ostile e che non sembra offrire loro nessuna via di scampo.

Il cinema di non-fiction estremo orientale non finisce con Weiwei, fuori concorso infatti verrà proiettato Ryuichi Sakamoto: Coda, documentario diretto da Stephen Nomura Schible che ripercorre cinque anni nella vita e nella carriera di Ryuichi Sakamoto, musicista salito alla ribalta internazionale negli anni ottanta con il trio tecno pop Yellow Magic Orchestra, ma negli anni successivi diventato anche un apprezzato compositore per film. Nel 1987 vinse un oscar per le musiche di L’ultimo Imperatore di Bertolucci ed è stato anche attore, oltre a curare le leggendarie musiche, in Furyo (Merry Christmas Mr. Lawrence) di Oshima quattro anni prima. Il documentario come si diceva focalizza l’attenzione sul periodo più recente della vita di Sakamoto, anni piuttosto difficili dopo il terremoto del 2011 e la crisi nucleare ed energetica a cui il musicista ha dedicato tutto se stesso, impegnandosi a favore dell’energia rinnovabile, ma soprattutto a causa di un tumore alla faringe che lo colpì nel 2014 e da cui è riuscito fortunatamente a guarire. Nella sezione Orizzonti verrà presentato un altro documentario che affronta una vicenda giapponese, Lucien Castaing-Taylor e Verena Paravel, le due menti dietro Leviathan ed il Sensory Ethnography Lab, uno degli eventi filosofico-cinematografici più importanti di questo nuovo secolo, toccano un argomento scottante come quello del cannibalismo. Il soggetto preso in esame è il giapponese Issei Sagawa che nel 1981, da studente iscritto alla Sorbona di Parigi, uccide, dismembra e si ciba di parte della giovane ragazza olandese Renèe Hartevelt. Sagawa viene rilasciato per degli intoppi giuridici nel 1984 ed è oggi un uomo libero, purtroppo l’eccezionalità del caso ha fatto sì che Sagawa diventasse una sorta di star underground, libri e film a cui l’uomo a partecipato non hanno fatto altro che spettacolarizzare l’accaduto. In questo senso il film di Castaing-Taylor e Paravel si preannuncia allo stesso tempo il più atteso ed il meno opportuno e fuori luogo dell’intera mostra, in cuor nostro speriamo sia davvero l’ultimo dedicato alla faccenda.

La sezione che più di ogni altra caratterizza questa edizione della mostra è senza dubbio Venice Virtual Reality, già ampiamente criticata e discussa, fa senza dubbio piacere vedere degli artisti e cineasti orientali di grande spessore cimentarsi con le potenzialità ed i limiti offerti da questa tecnologia. La Camera Insabbiata è un’istallazione nata dalla collaborazione fra Laurie Anderson e l’artista taiwanese Huang Hsin-Chien, i due avevano già lavorato insieme per la stroardinaria esplorazione musicale-visiva Puppet Motel, mentre uno dei lavori più attesi in questa sezione è The Deserted di Tsai Ming-Liang. Il rigore formale ed il senso di durata di cui è costituito il tessuto filmico dei suoi lavori, Goodbye, Dragon Inn, Journey to the West ed il Leone d’Oro Vive L’Amour, sono garanzia di poter assistere/partecipare ad un’esperienza estetica unica.