Nel corso di un giorno e di una notte – scrive Platone nel Timeo – l’Isola di Atlantide sommersa dal mare scomparve». Quella di Yuri Ancarani sembra però essere sopravvissuta, almeno fino alla fine del suo film quando tutto si rovescia mostrando quanto sia un’illusione, perché Venezia non esiste più.

Nel 1980 aveva 95 mila residenti, oggi ne sono rimasti metà, mentre le presenze turistiche sono passate dai tre milioni ai quasi trenta milioni all’anno. Una città morta di vita reale e viva solo come grande emporio del tempo libero: un cadavere urbano. L’Atlantide-Venezia è sommersa da un mare di vacanzieri.

Se molto è mutato nella città fisica, quanto è cambiata la città narrata dal cinema? La risposta di primo acchito è: poco, o forse niente. Al mito del «semicupio ingemmato», delle congiure del Consiglio dei Dieci, dello spazio del bello dove attempate signore newyorkesi s’innamoravano, o di gondolieri alla Alberto Sordi, si sono aggiunti nuovi miti e immagini che consolidano la lacerazione tra rappresentazione cinematografica e realtà.

Però, fino agli anni Ottanta l’immagine di Venezia nel cinema era una componente che si annacquava all’interno di una più variegata complessità sociale: il mito della città era una parte della città e il mito restava tale e poteva essere identificato proprio nel confronto con la città reale. Mentre in questi ultimi decenni la città (tutta la città) è diventata quel mito e nel modo più basso, in stile Epcott dove lo spazio sociale si è adattato ai gusti e alla borsa del turismo di massa: Venezia è un selfie-trofeo della post-post modernità.

Proprio quei film che vorrebbero essere più vicini a una Venezia «vera» e, giudicati frettolosamente rappresentazioni della città minore, autentica, umana e accogliente, segnano che le cose sono cambiate e che la verità è altra. Sono una cartina di tornasole, ovvero: sono rappresentazioni che producono uno scarto significante rispetto ad un oggetto della rappresentazione mutato.

Consideriamo, ad esempio, Pane e tulipani. Soldini voleva, per sua stessa dichiarazione, una «Venezia non turistica ma intima, popolare». Non ha detto anche «vera», ma poco ci manca e, comunque, il senso di «non turistico» non è molto lontano. La Venezia «minore» del film sarebbe, dunque, una città reale; meno male che qualcuno scrisse «sembra inventata», perché quella città abitata da anarchici vecchio stampo e da personaggi stravaganti, dall’alta qualità umana della vita sociale, non c’è più. La Venezia «vera» dello schermo non corrisponde a quella reale (e parlare di realtà per una città che ha reso fattuale il mito di se stessa è quasi un paradosso logico).

La non corrispondenza è, però, colma di senso: Soldini voleva creare una Venezia cinematografica anti cartolinara, fuori dagli stereotipi, dichiaratamente Altra, ma costruendo, ancora una volta, il mito e la narrazione di un’altra città (più che Altra tout court) che non c’è. La Venezia dove si perde Rosalba, vorrebbe essere esempio di città antimodernista, ma non c’è niente di più orribilmente modernista che il consumo di massa del tempo libero, e per essere funzionale alla modernità la città deve essere magica, irreale, mitica, perché nessuno andrebbe a Disneyland se somigliasse a Cinisello Balsamo.

Anche Otar Ioseliani in Lunedì mattina sceglie di raccontare una Venezia che si vorrebbe minore e ritenuta luogo ideale per la fuga dalla noia, dalla routine del mondo moderno: in poche parole, la città alternativa alla contemporaneità anche se non crede alla possibilità che questo tessuto urbano e il suo vissuto possano essere davvero un’alternativa. La fuga dal mondo di Vincent dura poco: improvvisamente irrompe nel mito, che vorrebbe essere reale, la verità. E questa realtà è la fabbrica chimica di Porto Marghera che rovina l’incantesimo: l’altrove sognato è l’hic e il nunc quotidiano, poiché qui, poco distante dal cuore magico della città, non si fuma, non si canta: ci si intossica e si muore. Non si tratta tuttavia di una vera decostruzione perché Ioseliani, conservatore, non ha mai amato l’oggi e preferisce l’ieri; e Venezia è, secondo il regista, l’ieri e Marghera l’oggi; sbagliando perché Venezia è il modernissimo oggi e Marghera è ormai quasi dismessa.

Venezia è consumata dalle immagini che replicandosi all’infinito ne alimentano il mito come quello della sua labirinticità dove si perde Woody Allen di Tutti dicono I Love You. Se le metropoli moderne sono la «grande tragedia della monotonia» come sosteneva Jane Jacobs, Venezia sarebbe l’esempio di anti modernismo dove ci si smarrisce topograficamente ma ci si ritrova esistenzialmente. «Fare jogging a Venezia – sostiene Allen è così… e così labirintico», ed è l’unica cosa che ha capito della città perché non ama il Tintoretto, definisce i palazzi con un generico giudizio estetico: «Questo deve essere vecchio» trasformando le calli della città in un’appendice di Central Park.

La città liquida opposta alla città solida, operosa e velo-rettilinea è città ferialis e pertanto deve amare l’ozio, la festa e la baldoria e, ovviamente, la maschera. E quindi, il carnevale è d’obbligo al cinema. Già normalmente il viaggiatore a cottimo arrivando a Venezia si maschera da assopito, da romantico in vena, da fotografo, (ma quasi mai da acculturato) e se poi indossa anche la maschera (perfino in Ferragosto ormai) nasconde l’ultimo brandello di stesso.

Lunga è la lista di film che hanno messo e mettono in scena quest’ultimo uso della città da Amorosa di Mai Zetterling a Le ali dell’amore di Iain Softley, da Una donna a Venezia di Bolchi a Nudo di donna di Manfredi e anche l’agente 007, Roger Moore, in uno spot di sigarette si fa cullare da una gondola indossando lo smoking, il volto mascherato da una bauta e al fianco una damina in abiti settecenteschi. Ed è la pubblicità a svelarci il cuore intimo dei fenomeni mediatici.

Il personaggio più in sintonia con l’oggi è Paolo Villaggio che in Fantozzi va in pensione di Neri Parenti giunge a Venezia armato di borse e borracce, maglietta madida di sudore, pantaloncini corti da vacanziere, basco regolamentare, arrivando a piazza San Marco a mezzogiorno con quaranta gradi di caldo venendo investito da uno stormo di piccioni assassini. La comitiva fantozziana «Viaggi Inps» non è poi così lontana dalla moltitudine che invade ogni giorno la città. Il top è raggiunto da uno spot del Tonno Star dove una coppia di sposini in luna di miele mordicchia estasiata il tonno in questione adagiata in una gondola; passa un motoscafo con una comitiva di turisti giapponesi che, divertita, fotografa i due consumatori di Venezia, di merci, e di tempo libero. Tutto si tiene.

Quale futura immagine mediatica avrà la città post-covid? Questa esiste già, dove il reale e l’immaginario si fondono: è l’hotel-casinò «The Venetian» a Las Vegas. Un unicum con albergo, casinò, gondole, camerieri vestiti da gondolieri, botteghe di specialità veneziane. Comodo, facile da raggiungere, con personale che parla un corretto americano. Più vero del vero. O forse più finto del finto com’è oggi Venezia.