La caratteristica che unifica quest’anno la maggior parte dei film presenti alla Mostra del cinema di Venezia edizione 73 appena presentata (31 agosto-10 settembre) è, secondo il direttore Alberto Barbera, una sterzata di stile rispetto agli ultimi anni, in cui sembrava che il cinema riflettesse sulla realtà e volesse dare il suo apporto alle situazioni complesse in cui ci si trova a vivere.
Ora l’approccio sembra sia più mediato, i registi spesso si rifanno alla letteratura, alla storia, al teatro, perfino a generi come il western o la fantascienza come a filtri attraverso cui leggere non solo i tragici accadimenti contemporanei, la difficoltà dei rapporti, ma provare anche a esplorare i limiti, perfino disegnare cosmologie. Così tra i film in concorso Wim Wenders che in Les beaux jours d’Aranjuez mette in scena un testo teatrale che Peter Hadke ha scritto in francese, dialogo tra un uomo e una donna in un giorno d’estate. Oppure François Ozon in Frantz da un testo teatrale che aveva già ispirato Lubitsch dove aleggiano i temi della responsabilità etica di fronte alla guerra; ispirato a un romanzo dai contorni polizieschi è Nocturnal Animals di Tom Ford con Jake Gyllenhaal. Fatti storici sono il motivo ispiratore di Jackie di Pablo Larrain, il grande regista cileno che ha saputo sviscerare le zone d’ombra più oscure legate ai tempi della dittatura (Tony Manero, Post Mortem) e qui racconta i quattro giorni successivi all’assassinio di John Kennedy.

Da segnalare un altro regista cileno in concorso, Cristopher Murray con El Cristo ciego girato nel nord delle miniere. Aleggia l’ombra dell’olocausto e della responsabilità personale in Rai (Paradise) di Konchalovskij. È un western (ma olandese) Brimstone di Martin Koolhoven con Dakota Fanning, viaggia al limite del fantastico tra gli ultimi della società messicana La region salvaje di Amat Escalante.

Anche se non ci saranno a Venezia i film di Martin Scorsese e Clint Eastwood che usciranno intorno a Natale, in concorso si nota una maggioranza di film prodotti o coprodotti dagli Usa, una scelta che indica la vitalità di una cinematografia che riesce a trasformarsi continuamente e che, dice Barbera «lavora sulle contaminazioni, sui nuovi linguaggi, continua ad essere il cinema dominante»: La La Land di Damien Chazelle (con Ryan Gosling), scenari distopici nel deserto del Texas in The Bad Batch di Ana Lily Amirpour (con Keanu Reeves e Jim Carrey), fantascienza con extraterrestri in Arrival di Denis Villeneuve, guarda come sempre lontano anche Terence Malick in Voyage of Time, dedicato alla genesi dell’universo, un lavoro che dura da dieci anni, dalla prospettiva del telescopio alla quotidianità della vita nel terzo mondo, visione sul senso della vita.

In concorso tre film italiani: Giuseppe Piccioni di cui abbiamo sempre apprezzato la sensibilità e la traiettoria a parte con Questi giorni (Margherita Buy, Filippo Timi), Piuma di Rohan Johnson, una commedia che viene annunciata per fortuna «non come le solite» e Spira mirabilis di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, un’altra riflessione (a basso costo) sul senso della vita con riprese realizzate in giro per il mondo. «Abbiamo visto 120 film italiani, dice Barbera, forse troppi, abbiamo una produzione che punta più sulla quantità che sulla qualità e abbiamo scelto i più nuovi, i più coraggiosi, quelli fuori dagli schemi».

Tra i film Fuori concorso (con Loznitsa e Seidl) c’è Assalto al cielo, un film sul ’68 di Francesco Munzi. Potrebbe sembrare secondario, ma la novità e che «il buco» non c’è più. Nei primi anni aveva acceso la fantasia dei cinefili arrivati a Venezia come fosse uno scenario da fantascienza, da film del disastro, una vasta voragine poi ricoperta da plastica translucida ondeggiante, che baluginava attraverso qualche fessura dei pannelli di copertura, emettendo fruscii. Utilizzarla come location improvvisata? Neanche a parlarne, l’amianto trovato in quel luogo non permetteva iniziative di nessun genere. Ma ora, grazie al Comune, il buco non c’è più e al suo posto si è ampiamente allargato lo spazio di fronte al Casino. Era come vedere la metafora dello stato delle cose italiane, un immobile disastro, rinnovato anno dopo anno.

In questo nuovo spazio la novità è la nuova sala, il «Cinema nel Giardino» con accesso gratuito per un pubblico più allargato, programma a cui ha aderito subito Gabriele Muccino con L’estate addosso, altri registi italiani sono stati restii a partecipare (ci sono i documentari di Michele Santoro e Francesco Carrozzini) mentre hanno aderito volentieri come Kim Ki Duk o James Franco.

Altra novità della mostra è il potenziamento di «Biennale College» che favorisce lo sviluppo di progetti verso la sceneggiatura (sono appena stati accolti 12 progetti su 205 presentati), con l’avvio del «Venice Production Bridge» che porterà verso la produzione progetti compiuti.

Tutti a casa di Luigi Comencini nel centenario della nascita del regista, prima mondiale della copia restaurata è il film di preapertura del festival il 30 agosto: e sembrano quest’anno tornare veramente tutti nella «casa» di Venezia alcuni dei nomi che qui sono diventati celebri internazionalmente o che hanno un particolare valore per gli appassionati di cinema: Bresson di L’argent, Ferreri di Break-up, un rarissimo Makhmalbaf (tra i classici), Wenders, Malle, Kusturica (in concorso con On the Milky Road), Skolimowski a cui andrà il Leone alla carriera, Romero con Zombi (lo presenterà Dario Argento), Kiarostami, Cimino.

Chi era all’anteprima di Heaven’s Gate, nel 1980, ricorderà certamente l’esperienza folgorante della proiezione notturna, fino alle prime luci dell’alba. Quest’anno due sono gli omaggi ai grandi scomparsi: a Michael Cimino con la proiezione di L’anno del dragone (1985) e ad Abbas Kiarostami con il suo 24 Frames, uno dei corti a cui il regista stava lavorando, una serie ispirata alla pittura precedente alla nascita del cinema che potesse guidare a una nuova visione, e che aveva poi dovuto interrompere.
A questo si aggiunge This is my film: 76 Minutes and 15 seconds with Kiarostami realizzato dal suo amico e collaboratore Seifollah Samadian, ovvero i 76 anni e 15 giorni quanto è durata la vita del regista. E ci sarà anche una specie di uovo gigante, con dentro i programmi di Enrico Ghezzi.