Si chiude la Biennale Teatro, l’ultima ad esser diretta da Antonio Latella nel ciclo presieduto da Paolo Baratta (presente in sala ad alcuni degli ultimi spettacoli, mentre ad altri presenziava il nuovo presidente dell’ente veneziano Roberto Ciccutto, e perfino il responsabile massimo del ministero, Salvo Nastasi). Non foltissimo il pubblico, anche a causa delle limitazioni imposte dal Covid. Nella quasi totale assenza dei turisti, Venezia davvero alterna momenti in cui pare più umana ad altri in cui prevale un spettrale.’ombra
In questo senso apparivano pertinenti alcuni degli spettacoli visti, a cominciare da quello che ha concluso la rassegna, un testo del norvegese Arne Lygre tradotto e messo in scena da Jacopo Gassman, Niente di me – Uno studio. In realtà forse lo spettacolo più concluso, nella sua forma essenziale in cui tre attori di livello (Sara Bertelà, Michele Di Mauro e Giuseppe Sartori) danno vita a fantasmi e spettri che notoriamente affollano il 900 teatrale scandinavo: qui la storia di una coppia, coi suoi orgasmi e le sue frustrazioni, tesse una drammaturgia emotiva piuttosto forte e coinvolgente, pur in un assoluto, ma solo apparente, vuoto visivo.

SONO STATI giorni molto densi sulla scena veneziana. Antonio Latella aveva scelto come tema la censura, in realtà ha mostrato i frutti migliori del lavoro svolto durante tutti gli anni del suo mandato alla Biennale College, un laboratorio intenso che già offre delle sicurezze. Ma la «censura» era per Latella sia quella ideologica e contenutistica nei lavori presentati, che quella ancor più feroce del mercato, che rende nuove generazioni di artisti «invisibili» ai loro naturali pubblici. Anche se la maggior parte degli spettacoli e degli artisti presentati a Venezia sono ben noti e «vedibili» per chi voglia girare negli spazi romani (e forse anche di Milano).

E DIVERSI altri lo saranno, visto l’interesse in sala di diversi direttori di teatri italiani, che hanno anche già favorito le produzioni (gli stabili dell’Umbria e di Roma e il torinese Piemonte Europa, tra gli altri). Certo, in una rassegna che vuole essere contrassegnata dal rigore, qualche errore di sopravvalutazione c’era, come quella per i milanesi Drag Queen, approssimativi quanto a padronanza di parola come di danza (almeno a confronto con analoghe esperienze straniere) avevano notevoli cadute di tono cui non sopperiva il paolopolismo solo esteriore…
Hanno confermato le attese i nomi già emersi. Leonardo Lidi in due anni ha già realizzato diversi spettacoli, che confermano la sua ascendenza «latelliana». Sa lavorare con i materiali, gli attori e le visioni; resta un piccolo mistero perché andare a scegliere un testo di D’Annunzio col suo linguaggio polveroso come è La città morta. Il vate abruzzese è stato riletto con grande senso critico, a fine 900, da maestri della regia come Castri, Trionfo e Cobelli. Ora suona così lontano per rappresentare la quasi impossibilità dei sentimenti, da risultare comunque fastidiosamente inutile. Nonostante su quella tribunetta sportiva fiammeggiante, Lidi faccia muovere tre giovani e assai valenti attori.

QUASI «VITTIMA» della sua scelta rischia di finire anche Giovanni Ortoleva che coraggiosamente mostra un testo «maledetto» fin da quando lo portò in scena il suo autore Fassbinder, a Francoforte nel 1975: I rifiuti, la città e la morte. Allora furono pesanti quanto fuorvianti le accuse di antisemitismo, perché ebreo è il capitalista speculatore. Oggi lo scandalo dei commerci sporchi è superato dalla realtà delle cronache, senza distinzioni razziali o politiche, rendendo quasi inutili le mascherature teatrali per raccontarlo. Così come il Glory Wall di Leonardo Manzan che vorrebbe scoprire immaturità ed efferatezze dietro un muro incombente che continuamente si anima, non arriva a trasfigurare pruriti e spavalderie su temi certo non immediatamente solubili come sessualità e socialità. È stato premiato invece da una giuria di critici stranieri (do you understand?) che ha dato una segnalazione al Platonov cechoviano riscritto quasi autobiograficamente da Liv Ferracchiati. Eccessiva risulta anche Fabiana Iacozzilli, che percorre il ciclo di una gravidanza abnorme (quanto a dimensioni) nel trauma dell’educazione della neonata creatura, che evolve in una figura paterna ancor più bisognosa di cure: un ciclo vitale certo, in cui le immagini «mostruose» prevaricano quello che pare un molto personale percorso analitico.
Ognuno di questi spettacoli crescerà, lasciando la laguna, e sicuramente offrirà stimoli e suggestioni più ampie. Come diversi tra gli altri progetti andati in scena: buona parte di loro sembrano già in grado di bypassare la censura (e le inadeguatezze) del nostro mercato teatrale.