Quella che da duecento anni esatti è un’icona pop paragonabile solo alla Gioconda ha iniziato la propria carriera ufficiale nel luogo più paludato possibile, l’Académie Royale des Beaux-Arts di Francia. Immaginatevi tanti signori eleganti con un’aria molto dotta, tra loro illustri esperti e rinomati artisti: davanti a essi, il 21 aprile 1821, l’anziano Quatremère de Quincy – un protagonista della vita politica e culturale dalla Rivoluzione in poi – lesse una memoria «sulla statua antica di Venere scoperta nell’isola di Milo nel 1820».
È passato solo un anno dalla scoperta, e già la statua vanta un illustre riconoscimento da parte del mondo degli studiosi. Eppure l’alone mitico che la circonderà fino ai nostri giorni era apparso ben prima della dissertazione di Quatremère de Quincy, a poche settimane dal rinvenimento. Il mito della Venere di Milo, infatti, sorge dallo speciale aspetto assunto da quel corpo femminile: l’assenza delle braccia e l’impossibilità di determinarne con certezza il gesto (rompicapo per gli studiosi da due secoli), fa sì che lo sguardo si concentri solo sulla bellezza delle forme corporee, senza che ci si debba chiedere che cosa stia accadendo, e persino chi sia questa fiorente figura femminile. Ma, prima ancora, il mito era scaturito dalla complicata e a tratti avventurosa vicenda che aveva portato alla sua «conquista» (così la intesero i contemporanei). Un’opera che agli inizi dell’Ottocento apparve come un capolavoro assoluto, ma che oggi occupa un posto relativamente modesto nei saggi di storia dell’arte antica.
La Venere di Milo per l’età classica e la Gioconda per l’età moderna sono le star indiscusse del Louvre (e non solo), ma un conto è il ritratto di donna di Leonardo, un altro l’Afrodite scoperta nell’isola di Melos, che non ha un rilievo altrettanto speciale nel panorama artistico ellenistico. Lo storico dell’arte e l’archeologo tengono ben distinti gli avvenimenti che portano alla scoperta di una nuova opera e l’opera stessa; non così il pubblico, almeno dall’Ottocento in poi: se c’è un versante avventuroso – come è accaduto per la Venere di Milo – il racconto (anzi l’iper-racconto) diviene tutt’uno con l’oggetto artistico, e nasce appunto il mito.
Il barone Carl Haller von Hallerstein – che si era distinto come archeologo ad Atene, Egina e Bassae – aveva scavato nel teatro antico di Melos nel 1814. Sei anni dopo, in quei pressi, un contadino si imbatte in una nicchia sotterranea e trova, al suo interno, una statua femminile, alcune erme e altri marmi frammentari.
Il 16 aprile 1820, arriva a Melos una nave francese; Louis Brest, agente consolare sull’isola, informa gli ufficiali della scoperta effettuata tre settimane prima. Tra di essi c’è il naturalista Jules Dumont d’Urville, che viene accompagnato a vedere la statua. L’ufficiale, che ha una formazione classica, ammira immediatamente la scultura e l’identifica come Venus victrix: tra i frammenti c’era infatti una mano che stringeva una mela (il naturalista avrà pensato al Giudizio di Paride e al premio vinto dalla dea più bella).
La nave francese deve continuare la propria missione e arriva a Costantinopoli il 28 aprile. Dumont d’Urville parla a lungo con il segretario dell’ambasciata, il conte de Marcellus. Impressionato dal racconto del giovane ufficiale di marina, Marcellus decide di recarsi a Milo per acquistare la statua. Ma al suo arrivo la situazione è intricata. Un monaco ortodosso se n’è impadronito (senza aver ancora pagato il contadino): vuole donarla al dragomanno dell’Arsenale di Costantinopoli, un uomo potente nelle isole dell’Egeo, ancora sotto il dominio ottomano. I capi della comunità di Melos non assecondano Marcellus, costretto a imbastire una lunga e faticosa trattativa. Nonostante l’insistenza, il monaco non cede.
Ecco un’altra tappa che va a consolidare il mito: nella notte, Marcellus sogna Venere, bella – annota nei suoi ricordi – come la descrive Lucrezio nel De rerum natura. Sta di fatto che, il giorno seguente, finalmente la trattativa si conclude: il segretario dell’ambasciatore, promettendo la protezione francese sull’isola, acquista la scultura, pagando anche qualcosa in più al contadino.
È a questo punto che i marmi vengono trasferiti sull’imbarcazione francese, protetti da sacchi di tela, e Marcellus può vedere per la prima volta la Venere: come di fronte a un’epifania divina, la chiama Anadyomene (che sorge dalle onde) e Victrix (perché vittoriosa sulle avversità), recitando alcuni versi dell’Inno omerico ad Afrodite. In un certo senso il mito ha avviato la sua marcia senza bisogno dell’oggetto del desiderio. Tutto è cominciato dal racconto entusiasta di un giovane e colto botanico a un addetto d’ambasciata: quest’ultimo, senza aver ancora visto la statua, lascia la capitale ottomana per recarsi fino a Melos (sono 600 chilometri in linea d’aria), avvia una trattativa difficile e a tratti rischiosa, infine conclude l’acquisto (alla cieca).
La nave francese inizia il suo percorso glorioso con la Venere a bordo: Rodi, Cipro, Alessandria. Al Pireo – il 21 settembre 1820 – Marcellus riceve le felicitazioni dei compatrioti residenti ad Atene e del viceconsole Louis Fauvel; da una sua lettera veniamo a sapere che la Venere venne esposta ai presenti in un «beau clair de lune».
A Smirne, la Venere di Milo viene trasferita sulla nave da carico che dovrà portare l’ambasciatore – il marchese de Rivière — in patria. Approda finalmente in Francia nel dicembre 1820, ma entra al Louvre solo nel febbraio 1821. Il 1° marzo l’ambasciatore fa omaggio della statua al re Luigi XVIII e fa apporre un’iscrizione che ricordi solennemente l’evento: Venus Victrix découverte à Milo en 1820, donnée au Roi par M. le Marquis de Rivière, son ambassadeur à Costantinople.
Ogni mito che si rispetti deve avere anche un versante misterioso, senonché questa volta qualcosa di enigmatico succede davvero. La più antica incisione della Venere nelle sale del Louvre mostra la statua ricomposta (era spezzata in due), il piede sinistro non ancora restaurato, e un basamento dotato di iscrizione; non tutti i testimoni avevano descritto quest’ultimo frammento, che – una volta arrivati al Louvre i marmi di Melos – viene accostato alla base della scultura. A un certo momento, però, questo frammento inscritto non solo venne disgiunto dalla scultura, ma andò addirittura perduto (o distrutto?). Uno smarrimento casuale? La statua era ancora in viaggio per Parigi, che già gli studiosi l’assegnavano all’epoca d’oro dell’arte greca, l’età classica; l’autore doveva essere uno dei grandi artisti ricordati dagli scrittori greci e romani, forse addirittura Prassitele. Ecco le parole di Quatremère de Quincy: «un’opera che ci offre, assieme alla più alta idea dell’imitazione della natura femminile, il più grande carattere formale, la più felice mescolanza della verità e della grandezza dello stile, della grazia e della nobiltà, deve essere uscita dalla bottega o dalla scuola di Prassitele».
L’iscrizione (che sembra ben combaciare con la base) cita invece come autore un certo «(Alex?)andros figlio di Menides, di Antiochia sul Meandro», in altre parole un artista di età ellenistica, un periodo artistico che, dopo Winckelmann, veniva considerato decadente. La sparizione dell’iscrizione (ben difficilmente fortuita) fu provvidenziale, perché in questo modo nessuno poteva contestare l’antichità dell’opera. Così si compensava un vuoto recente: la Francia della Restaurazione, infatti, aveva perduto i capolavori antichi che Napoleone aveva portato da Roma e Firenze, e che dal 1815 erano tornati indietro, il Laocoonte, l’Apollo del Belvedere, la Venere dei Medici; nell’immaginario ottocentesco, proprio quest’ultima verrà sostituita dalla Venere di Milo come modello di perfetta bellezza femminile.
Parigi ora poteva vantare una prestigiosa scultura di età classica e, se non superare (così pensavano alcuni illustri studiosi francesi), almeno mettersi alla pari con Londra – che da non molti anni possedeva i marmi del Partenone – e con Monaco di Baviera, la cui Gliptoteca esponeva le statue dei frontoni di Egina (da poco restaurate da Bertel Thorvaldsen).