Tahrir è chiusa, i militari ne occupano gli ingressi, la fermata della metro Sadat, che conduce alla piazza, è bloccata. E fa una certa impressione a chi crede che Tahrir rappresenti il simbolo delle rivolte del 25 gennaio 2011 in Egitto. Questa occupazione manu militari del centro rivoluzionario per eccellenza è uno shock per i movimenti giovanili egiziani da Kifaya (Basta!) a 6 aprile, dalla Coalizione dei giovani rivoluzionari e perché no anche per i Tamarrod (rivolta): un capestro che politicamente non esiste ma che in ogni caso aveva un’aspirazione genuina ai suoi inizi. Anche i suoi esponenti sono ora nell’occhio del ciclone, indagati dalla procura per le proclamate proteste anti-Mubarak.
E così si sta realizzando l’unica alternativa possibile al nazionalismo dei militari, alleati con giudici, polizia, giornalisti e burocrati: i Fratelli musulmani, Sembrano loro l’ultimo freno al governo in carica, un governo liberale, senza alcuna base elettorale, con esponenti di sinistra usati strumentalmente per spingere l’idea di un nuovo corso che guarda a Russia e Cina o meglio a un’impossibile indipendenza dagli Stati Uniti. Ma le opposizioni, o i politici liberali come Baradei, che per questo ha lasciato il Paese, e alcuni tra i giovani rivoluzionari hanno iniziato a capire che prima che sia troppo tardi è necessario risollevare le sorti di una rivoluzione che è ora morta. Non i nasseristi che si nutrono della stessa linea di corruzione e familismo degli uomini del vecchio regime. Come è potuto accadere? Con la sovrapposizione completa tra potere politico e militare: sancita dal colpo di stato del 3 luglio scorso da parte del generale Sisi.
E così ieri regnava l’ordine al Cairo. Scontri tra pro e anti Morsi si sono concentrati solo nelle periferie. A Giza davanti alla moschea Estikama ci sono stato tafferugli. Lo stesso è avvenuto dopo la preghiera del venerdì nei pressi di Shubra dove uno sheykh nella sua predica aveva detto: «Se l’esercito fallisce diventeremo una nuova Siria». Alcuni manifestanti si sono diretti verso il ministero della Difesa ad Abbasseya cantando slogan contro Sisi. La polizia ha sparato in aria e lanciato lacrimogeni per disperdere i pro-Morsi a Mansura, nel delta del Nilo. Gli scontri più cruenti sono avvenuti a Minia e Tanta. Qui si contano un morto e 14 feriti. Ma nessuno tra i Fratelli musulmani ha più voglia di sangue e così il «Venerdì dei martiri» è stato tra i meno movimentati delle ultime ondate di protesta. Tutti i principali leader della Fratellanza sono in prigione. 10mila attivisti islamisti mancano all’appello, la maggior parte di loro sono in carcere, in isolamento senza accuse precise, come lo studente di italianistica Mohammed che da oltre una settimana non dà notizie alla famiglia. Non solo, la bozza di Costituzione, approvata dalla Commissione tecnica ha stravolto l’impianto della Carta, voluta dagli islamisti, cancellando con ogni probabilità la formazione di partiti basati sulla religione, escludendo la futura partecipazione della Fratellanza. E la propaganda si fa anche con i sondaggi, secondo un centro di ricerca citato dal quotidiano filo governativo Al-Ahram, il 67% degli egiziani era favorevole allo sgombero di Rabaa el Adaweya. Un sondaggio del Centro di informazione egiziano parlava invece nei giorni scorsi di una popolarità dei Fratelli musulmani ancora al 69%: la guerra di cifre e la doppia verità continua.
Infine, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama è tornato sulla questione della revisione degli aiuti militari all’Egitto assicurando che la questione è ancora sul tavolo, dopo la sospensione delle esercitazioni militari congiunte disposte la scorsa settimana. Mentre il premier turco Recep Tayyp Erdogan è apparso ieri in lacrime nella televisione di stato mentre leggeva una lettera del leader della Fratellanza Mohammed el-Beltagi alla figlia, scomparsa negli sgomberi di Rabaa.