Era il 1859 quando una George Eliot alla ricerca della formula romanzesca più efficace, e incline al «jeu de mélancolie» (come lei stessa ebbe a scrivere in una lettera al suo editore), raccontava la genesi di un narratore inaffidabile come effetto collaterale – tanto inevitabile quanto perturbante – della débâcle matrimoniale cui era andato incontro il suo personaggio. Il titolo della novella, The Lifted Veil, alludeva alla coltre delle illusioni che si solleva allorché una unione si rompe e il membro della coppia più fragile e dipendente si ritrova a elaborare il lutto attraverso una ricostruzione ossessiva del naufragio amoroso: «disprezzavo questa donna dall’anima arida e dai pensieri meschini ma mi sentivo inerme davanti a lei, come se mi avesse artigliato il cuore decisa a non mollare la presa finché non ne fosse uscita l’ultima goccia di sangue».

L’insolita incursione di George Eliot nei territori del noir fa senz’altro parte del subconscio letterario di Una separazione , terzo romanzo della scrittrice statunitense di origini giapponesi Katie Kitamura, appena uscito da Bollati Boringhieri (traduzione di Costanza Prinetti, pp. 189, € 16,50). Mutatis mutandis, anche qui la vicenda è centrata sul nucleo di mistero che avvolge una relazione coniugale finita. Anche qui la protagonista sembra affetta da un’inquietante capacità telepatica che la mette in comunicazione con le menti degli altri e ne paralizza l’affettività. Anche qui, infine, la voce narrante parla la lingua cinica e salottiera delle classi agiate britanniche.

Una giovane donna che vive a Londra e fa la traduttrice letteraria – e che resta anonima fino alla fine della storia – viene spedita in Grecia dalla ricca suocera alla ricerca del marito, un antropologo dilettante del quale si sono perse le tracce, verosimilmente partito per svolgere ricerche sulle prèfiche, le donne pagate per piangere ai funerali. Malgrado la coppia sia separata da mesi e lei abbia avviato una nuova relazione, la donna accondiscende al desiderio dell’anziana signora perché non ha il coraggio di raccontarle la verità sulla separazione dal figlio, e perché, di conseguenza, si sente obbligata a recitare la parte della moglie devota.

Prevedibilmente, il passaggio da Londra a Gerolimenas – il villaggio di pescatori situato nella penisola della Maina in cui Christopher è stato avvistato per l’ultima volta – si trasforma in un pellegrinaggio verso l’oggetto d’amore perduto, la cui assenza diventa sempre più ingombrante e difficile da esorcizzare. Catapultata in una terra arcaica che è tuttora teatro di faide sanguinarie, e scissa tra il senso di responsabilità verso un legame formale e emotivo tutt’altro che sciolto, e il desiderio di sottrarsi quanto prima all’inseguimento forzato del marito, la donna ingaggia un dialogo muto e predatorio con tutte le persone e con tutti gli ambienti con cui Christopher è entrato in contatto prima di scomparire tra le terre del Peloponneso arse dagli incendi. Così, la ricerca del marito perduto si trasforma nell’affilata autopsia di un matrimonio altoborghese opaco e compromissorio, e di una separazione che appare via via sempre meno «civile».
L’invenzione narrativa del romanzo è tutta racchiusa nell’aggressività passiva della narratrice, le cui congetture visionarie ma perspicaci sulla natura e sui comportamenti del marito tradiscono un sottile desiderio di vendetta: «Se soffriva per qualcosa, era un dolore puramente astratto. Era affascinato, però da chi aveva subito una perdita. Questo dava alla gente l’impressione erronea che Christopher fosse un uomo empatico. La sua empatia durava quanto la sua curiosità: sparita quella batteva subito in ritirata, rendendosi irraggiungibile, o comunque meno disponibile di quanto la gente si aspettasse, dopo l’improvvisa, prepotente intimità dimostrata all’inizio». A mutare l’aggressività passiva della moglie ferita (così come quella del marito in fuga da tutta la famiglia) in un’autentica compulsione di morte è l’ambiente mediterraneo, che arriva dove non possono, o non vogliono, arrivare i compassati cittadini britannici. La fiera terra dei Manioti, celebrata dai versi di Byron e famosa per le lotte indipendentiste, diventa così – banalmente – il palcoscenico sul quale si consuma l’angosciante rito della separazione lasciato incompiuto in patria.

Katie Kitamura non manca il coraggio di riesumare uno stereotipo culturale radicato nell’immaginario coloniale anglosassone che, da tempi immemori, si appropria degli spazi mediterranei e orientali per risolvere dilemmi squisitamente domestici. Il velo di falsità e connivenze che avvolge un’unione priva di intimità, e che l’Inghilterra protegge con eleganza ipocrita, la Grecia scoperchia con la violenza della fatalità tragica. Benché poco originale, dunque, la geografia delle passioni disegnata dal romanzo trova la sua ragion d’essere proprio nell’evocazione di una memoria letteraria di lungo e onorato corso.
L’aspetto meno convincente di Una separazione riguarda lo statuto della voce narrante, che oscilla tra la reticenza e la garrulità, tra curiosità morbosa e toni epigrammatici, e suona oltremodo autocompiaciuta. Katie Kitamura mette la narratrice in posa e le fa tessere un racconto accostabile a un parossistico selfie. L’effetto complessivo può risultare irritante, ma è innegabilmente in sintonia col narcisismo dei tempi.