Dove non arriva la politica, arriva la magistratura. E dove non arriva quest’ultima, si fa largo l’impegno civile. La battaglia italiana contro la tortura, transitata per l’aula parlamentare, per i tribunali, per le piazze, non è mai cessata. Una lotta al rimosso, al tabù per eccellenza, al più nascosto dei crimini che si fa plastico nei percorsi sotterranei dell’egemonia statale della violenza.
A raccontare questa lotta è Antonio Marchesi, professore di diritto internazionale a Teramo e a Roma, per due volte presidente di Amnesty International Italia, nel libro Contro la tortura. Trent’anni di battaglie politiche e giudiziarie, pubblicato di recente per Infinito Edizioni (pp. 120, euro 14).
Marchesi ripercorre la storia italiana alla luce della ratifica della Convenzione delle Nazioni unite contro la tortura, datata 1988: è la legge 498 con cui il nostro paese si adegua al trattato internazionale di quattro anni prima. Ma quell’adeguarsi si configura fin da subito come una foglia di fico, al pari dell’occultamento dell’esistenza – nelle carceri italiane – di pratiche di tortura sistematizzate. È il sistema di cui parla nella prefazione Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia («Un cerchio magico che tiene insieme, solidali nell’impunità, coloro che ordinano, coloro che eseguono, coloro che negano»), e che per interi decenni ha impedito alla magistratura italiana di punire il reato di tortura.

IL LIBRO È RICCO DI ESEMPI, di cui sviscera circostanze fattuali e conseguenze, analizzando in particolare la debolezza della legislazione interna nel recepire davvero e con efficacia il diritto internazionale. Da Enrico Triaca, il cosiddetto tipografo delle Br, che avrà giustizia solo nel 2013 a distanza di 35 anni dai supplizi fisici e psicologici subiti in prigione, fino ad Abu Omar, consegnato all’Egitto dalla Cia con la fondamentale collaborazione del Sismi, passando per le torture nel carcere di Asti e i respingimenti di massa in mare di eritrei e somali verso la dannazione. E, ancora, per la macelleria messicana che fu Genova 2001 e, pochi anni prima, per i crimini odiosi di cui si macchiarono in Somalia i paracadutisti della Folgore. Tutti assolti, chi per prescrizione, chi per l’apposizione di segreto di Stato, chi per l’abissale lacuna del codice penale. In alcuni casi, come per le torture di Bolzaneto, addirittura promossi.

MA QUELLE ASSOLUZIONI hanno continuato a fare delle vittime, seppur indirettamente. L’impunità di cui hanno goduto i torturatori italiani è la stessa di cui stanno tuttora godendo gli aguzzini e gli assassini di Giulio Regeni. A Giulio, giovane ricercatore friulano, Marchesi dedica un capitolo e non poteva essere altrimenti. L’impegno senza precedenti della società civile sulla spinta della campagna di Amnesty e della tenacia dei genitori e la testardaggine della Procura di Roma hanno finora sbattuto contro un muro di gomma, quello dei depistaggi egiziani e quello delle promesse mancate della politica italiana.
Di nuovo, come nei casi di tortura tutti italiani, a prevalere è stata un’amara ragion di Stato che nega il fine ultimo della tortura, la disumanizzazione della vittima che si trova sotto la custodia di chi dovrebbe tutelarla: «L’annientamento della persona arrestata o reclusa, attraverso il degrado del suo corpo» – come scrive nell’introduzione il garante nazionale dei detenuti Mauro Palma – raggiunto da secoli con il dolore fisico e la sofferenza psicologica.
Fino all’estate 2017 quando, dopo battaglie lunghe decenni, il parlamento italiano ha approvato la legge che introduce il reato di tortura, un compromesso al ribasso che Marchesi analizza per mostrarne tutte le lacune. Pur definendolo un primo passo, l’autore ne è convinto: la battaglia, politica e soprattutto culturale, non è terminata.