Forse infastiditi da come il mondo ha ricordato il primo anniversario del golpe, forse per affermare una sorta di orgoglio militare birmano, i generali di Tatmadaw – l’esercito nazionale che ha preso il potere in Myanmar il primo febbraio 2021 – hanno rimesso in moto con violenza inusitata la macchina della repressione.

Hanno messo un nuovo carico giudiziario sulle spalle di Aung San Suu Kyi, la Nobel per la pace ex leader de facto del governo esautorato in febbraio e forse il punto più sensibile per la comunità internazionale. Uno schiaffo dunque, se mai ci fosse da dubitarne, che rifiuta ogni possibile mediazione e afferma con una violenza che non conosce limiti la repressione di ogni dissenso.

I rapporti da un Myanmar in fiamme testimoniano di centinaia di case incendiate e di migliaia di persone in fuga da villaggi ridotti a torce. Succede nella regione di Sagaing dove le case di almeno 4mila persone sono state date alle fiamme a Tabayin, Pale, Mingin, Kani, Shwebo and Khin-U negli ultimi giorni di gennaio. La notizia si è saputa ieri e nel solo villaggio di Hmawet Ton (Pale Township) i militari avrebbero dato fuoco a 250 abitazioni.

Secondo Radio Free Asia sarebbero almeno 10mila le persone forzate a lasciare le loro case. Anche se difficili da verificare, le azioni dell’esercito rispondono alla logica della terra bruciata in una regione dove la resistenza è sempre stata piuttosto forte, motivo per il quale le case sono state incendiate come forma di vendetta per il supposto sostegno ai gruppi delle milizie di autodifesa (Pdf) che rispondono agli ordini del Governo clandestino di unità nazionale.

L’esercito ha anche arrestato decine di persone accusate di aver aderito alla manifestazione silenziosa che ha visto chiudere, nel giorno dell’anniversario del golpe, centinaia di negozi come spesso avviene in quelli che vengono chiamati «scioperi silenziosi».

L’accanimento nei villaggi e nelle campagne più remote sembra però indicare anche un elemento di debolezza dell’esercito che non riesce comunque ad avere il controllo della situazione anche al di fuori delle zone dove si verificano veri e propri scontri armati con le milizie regionali che si oppongono al golpe.

I militari approfittano però anche di una blanda reazione della comunità internazionale che finora non è andata oltre a sanzioni individuali, congelando i beni dei militari all’estero e impedendo loro di viaggiare fuori dal Paese. Ma le aziende di Stato continuano a fare affari e le famiglie che le controllano, tutte o quasi militari, a trarne profitto.

Inoltre gli anglosassoni (americani, inglesi, canadesi) agiscono per conto proprio mentre gli europei balbettano, dimostrando che l’asse anti golpe è tutt’altro che compatto. Lo stesso succede in Asia dove la mediazione Asean è al palo e Paesi come Giappone, India e Corea del Sud si sono girati dall’altra parte. In buona compagnia con cinesi, australiani e russi.

Forse proprio per questo la giunta ha deciso di aumentare il carico giudiziario ad Aung San Suu Kyi e la magistratura birmana ha da ieri in mano un’undicesima accusa di corruzione contro la leader rimossa dal golpe. La nuova accusa alla Lady riguarda una presunta donazione di 550mila dollari che sarebbero arrivati tramite una fondazione di beneficenza intitolata a sua madre.

Già condannata a sei anni di carcere, potrebbe vedersene aggiungere altri 15 per questa ennesima accusa. Ma l’insieme delle accuse, la maggior parte ancora da provare, non la vedrebbe uscire viva di prigione vista l’età dell’ex capo di governo. È un accanimento che si somma ai dati quotidiani sulla strage degli oppositori civili: ieri a quota 1.519 dal 1 febbraio 2021.