Regista, filmmaker (Congo Tribunal), autore Milo Rau si definisce un «attivista», la ricerca artistica nel suo progetto è uno spazio di confronto e di relazione coi luoghi in cui le sue storie si svolgono, con le persone che ne sono state coinvolte, con il pubblico che non è un’entità «passiva» ma deve cercare un ruolo in ciò che guarda e che lo interroga nel mondo quotidianamente. Violenza, perdono, vendetta, potere: nell’archetipo la realtà è il punto di partenza del suo «teatro documentario» in cui si parla del genocidio in Rwanda (Hate Radio) o dell’omicidio di un omosessuale a Liegi (La Reprise) per costruire un repertorio sulla contemporaneità. È questo uno degli obiettivi dichiarati nel Manifesto con cui il regista svizzero è arrivato alla direzione artistica dell’NTGent.

Le regole? Una scenografia essenziale, prove aperte al pubblico, l’uso di almeno due lingue in scena, il divieto di utilizzare più del 20% di un «classico». Se il riferimento esplicito è ciò che era nel cinema il Dogma 95 di Lars von Trier, Rau dichiara anche altre ispirazioni: nel sottotitolo di La Reprise c’è Histoire(s) du théatre che rimanda alle Histoire(s) du cinéma di Godard, una frammentazione per parlare del reale, per mettere in scena quel «realismo globale» in cui si uniscono l’esperienza personale e quella della Storia, le ossessioni private e il senso «della verità» in ogni rappresentazione.

Orestes in Mosul «traduce» l’Orestea nella città irachena che è stata per tre anni, dal 2014 al 2017 la «capitale» del cosiddetto stato islamico. Rau ci è arrivato per la prima volta nel 2016 mentre seguiva il cammino dei rifugiati siriani, dal Nord Iraq fino al Kurdistan per Empire. Ci è tornato quanto Mosul è stata liberata pensando già all’Orestea, o meglio, se per lui il teatro è «un processo di creazione», la sfida qui era provare a intrecciare esperienze e vissuti di artisti iracheni e europei: che visione ha un attore iracheno della tragedia di Eschilo? Che cosa significa recitarla a Mosul per un attore occidentale? «La città era completamente distrutta, sono andato alla ricerca degli artisti sopravvissuti per iniziare questo lavoro comune» racconta Milo Rau. Ci parliamo al telefono, tra sobbalzi e vuoti di linea da Matera dove sta girando un film su Gesù (l’attivista Yvan Sagnet), parte del progetto Il Nuovo Vangelo che unirà cinema e teatro seguendo le tracce di un Gesù rivoluzionario (laddove aveva girato il suo Vangelo secondo Matteo Pasolini) tra i ghetti dei migranti che raccolgono pomodori e arance, i contadini, la miseria del presente.

Perché ha scelto come punto di partenza l’«Orestea»? Nel suo manifesto c’è il divieto di utilizzare testi «classici».
È vero ma ho deciso di fare un’eccezione. Quando ho attraversato la Siria ho provato in modo molto forte la sensazione di essere vicino all’antichità, nel suo cuore profondo, laddove è nata la civiltà su cui si è fondata quella greca e poi quella europea. Era come se tutto questo continuasse a resistere anche alla devastazione dell’Isis, dei conflitti. Al tempo stesso mi sentivo nelle immagini televisive, nella nostra contemporaneità. Così appena ho saputo che Mosul era stata liberata ho deciso di tornarci, era una città che viveva una doppia condizione, il dopoguerra e la guerra. C’erano ovunque bandiere nere anche se stavolta sciite, continui attacchi, esplosioni di bombe, il luogo in cui provavamo è stato colpito due volte, una persona della troupe è morta, molti altri avevano perduto familiari, amici ma si tentava di avviare la ricostruzione della società civile. L’Orestea mi sembrava rispecchiare questa realtà, il tentativo di passare dalla tragedia della violenza alle regole di un ordine sociale e politico condiviso, dalla vendetta al perdono.

E che risposte ha ricevuto?
Mi sono reso conto che era molto difficile: come può chi ha perduto qualcuno perdonare un altro che ha collaborato con l’Isis? La pièce è diventata una riflessione su questa giustizia impossibile che da lì si allarga al nostro tempo. Parliamo sempre di globalizzazione ma questo termine riguarda soltanto le economie e lo sfruttamento; gli attori dello spettacolo non possono viaggiare perché non hanno diritto al visa, e come loro moltissimi altri. Se la prima parte dell’Orestea può essere letta come una metafora del rapporto tra il Medio Oriente e la civiltà europea, la seconda, nelle grida di guerra, ci fa intuire la fine di uno scambio possibile tra oriente e occidente. Tornando alla questione del perdono e della vendetta, si può imporre una giustizia con uno stato forte, persino dittatoriale, ma questo non significa perdono – non sul piano individuale almeno dove la vendetta e la guerra continuano a covare. Il Rwanda era una società traumatizzata dalla guerra civile, i tribunali di riconciliazione sono stati il tentativo di mettere a confronto vittime e carnefici. Erano un rituale nel quale le persone rivivevano le violenze subite mentre altri ammettevano di averle commesse pubblicamente. È stato un tentativo che in molti casi ri-traumatizzava le vittime senza produrre una reale pacificazione. Solo ora, dopo vent’anni, chi non ha vissuto il genocidio direttamente riesce a parlarne con la distanza che non è solo quella del tempo ma che si produce quando la memoria collettiva sostituisce la biografia. La scena del massacro diventa allora visibile. Lo stesso è accaduto in Germania, nessuno voleva parlare dell’olocausto perché tutta la nazione era in qualche modo coinvolta, sono stati i figli a rompere il tabù – e il silenzio – molto tempo dopo.

Come è stata la relazione tra gli attori e il suo lavoro con loro?
Quando sono arrivato c’è stato un concerto pubblico, era il primo dopo anni perché lo stato islamico vieta la musica e ogni forma di arte. C’è un programma dell’Unesco per la città che cerca di riattivare le strutture culturali. Il nostro lavoro si fonda sullo scambio perciò cerchiamo di comprendere come un gesto che per noi ha un certo significato può essere interpretato o vissuto da chi appartiene a quella realtà. C’è un passaggio nello spettacolo con due uomini che si baciano, abbiamo voluto girarlo davanti all’edificio in cui venivano uccisi gli omosessuali, ne abbiamo discusso perché gli attori dicevano che la società intorno non avrebbe capito. Lo scambio è fondamentale soprattutto perché nel capitalismo globale è ormai negato. Si combattono guerre economiche, si distrugge il pianeta senza cura per il clima ma non c’è alcun interesse verso le persone. Mosul è la città del petrolio, questa insieme alle macerie è la sua immagine nel resto del mondo. A me interessa invece creare una dialettica in cui rimettere insieme le realtà distrutte dal capitalismo, dare voce a chi non ce l’ha come la gente di Mosul con cui nessuno, a parte le necessità mediatiche, ha mai parlato.