Esistono differenti, infiniti modi di concepire una mostra: ci sono quelle dedicate a un pubblico di un tipo o di un altro, quelle divulgative o scientifiche, e si può persino ragionare sul senso che acquista l’atto del mostrare un’opera d’arte in un dato momento, con un determinato gusto, e su come questo stesso atto possa cambiare la percezione dell’opera. In alcuni casi – i più virtuosi – lo scopo è verificare le proposte critiche interrogando le opere; scardinando, quando serve, i valori assodati.
Sfida al Barocco Roma Torino Parigi 1680-1750, alla Reggia di Venaria fino al 20 settembre – a cura di Michela di Macco per l’Università di Roma «La Sapienza» e Giuseppe Dardanello (insieme, per il catalogo, a Chiara Gauna) per l’Università di Torino – sta tra questi ultimi casi. La mostra ha un assunto difficile: raccontare come si dipanano i fatti artistici tra Roma e Parigi in quel torno di anni tra Sei e Settecento, lasciando allo svolgersi dei confronti tra le opere il compito di evidenziare gli scarti in avanti o gli sguardi a posteriori degli artisti. Saltano così le categorizzazioni da manuale: non ci sono «tardo barocco», «barocchetto romano», «proto-neoclassicismo» eccetera; piuttosto, verso il barocco come insieme di valori formali assodati, dalla fine del Seicento gli artisti lanciano, appunto, una sfida. E quell’eredità celebrata, ma ingombrante, è l’assunto di base di una modernità in via di definizione che trova in mostra diverse possibilità di codifica.
Gli spazi della citroneria juvarriana sono scanditi dall’allestimento di Massimo Venegoni, dove Roma e Parigi si affrontano in una narrazione ricchissima; dove l’impressionante numero di sculture, pitture e manufatti scelti (circa duecento pezzi) permette un’infinità di intrecci che emergono poco per volta, interpolando al percorso alcune rispondenze che fanno provare il piacere della scoperta.
In quella Roma universale da cui questa storia parte, dagli anni sessanta-settanta del Seicento si impone il canone di Giovan Pietro Bellori, una miscela di «bella natura colla scorta di ottimi maestri così dell’antica come dell’età moderna», buona anche per la tradizione critica francese in formazione. Carlo Maratti è il capofila dei contemporanei, mentre l’Accademia di San Luca garantisce agli artisti un riconoscimento sociale impensabile altrove; le recenti fondazioni dell’Académie royale a Parigi e dell’Accademia di Francia a Roma vanno perciò nella stessa direzione, con qualche distinguo: i pensionnaires erano funzionali alla politica francese, tesa a rendere Roma un vero e proprio cantiere per la copia e il calco per avere in Francia, secondo il noto auspicio del Re Sole, «tout ce qu’il y a de beau en Italie». Che significa, in soldoni, una graduale emancipazione da Roma e quindi la formazione, su questa selezione di copie, di una scuola nazionale con caratteristiche di modernità sempre più definite.
Un cultura, quella francese, che finirà per essere da qua in poi predominante in tutta Europa. Ma che cosa studiavano questi pensionnaires che nell’Urbe dovevano completare il loro percorso? Lo si vede bene in mostra: l’Antico, i grandi maestri del Rinascimento – Raffaello su tutti – ma anche Algardi, Bernini, Duquesnoy. Torino invece è in quel frangente una città-laboratorio in grado di attirare artisti e architetti diversi e aperti alla sperimentazione, come la straordinaria impresa della cappella della Sindone di Guarini, le prove di Pozzo, Guidobono e Seiter.
Dal 1690 il teatro degli stili della città papale trova un’unitarietà nel progetto dell’Accademia dell’Arcadia, dove il costante riferimento alla tradizione si accompagna a una riflessione sulla natura e sull’Antico, con un equilibrio che rimedia agli eccessi del barocco. Un barocco nel quale la scuola romana trova in ogni caso radici gloriosamente universali, rivendicando un primato; da parte francese, invece, teorici come Charles Perrault sostengono la superiorità dei connazionali contemporanei sui predecessori antichi. Così, se le prime generazioni di pensionnaires citavano scopertamente, come un vanto, i modelli romani, nei primi anni del Settecento comincia una fase di scollamento, e i giovani francesi, sempre più avvezzi alle esercitazioni accademiche sul nudo, e quindi al dato naturale, spostano l’asse della loro cultura verso nuovi riferimenti; fino agli estremi di Chardin, che trova nella natura l’unico modello possibile rifiutando persino la mediazione del disegno. Perciò ci si rivolge ai modelli dell’Antico, di Poussin e Le Brun con uno sguardo meno analitico, «dur et sec» – per citare Antoine Coypel –, e con una mano più sciolta al calore degli impasti di Correggio, Tiziano, Veronese, Rubens, Rembrandt.
È una «guerre pittoresque» che spinge a un rinnovamento dei generi in cui la pittura di storia perde sempre più quell’aura di trascendenza che l’aveva connotata, per essere riletta in chiave sensuale o scopertamente erotica. Si ostentano eleganze e gamme cromatiche scelte e seducenti in grado di affascinare il pubblico, sull’esempio di una certa tradizione nordica e italiana. E colpiscono alcuni artisti francesi legati in un modo o nell’altro alle Fiandre, come François Desportes, che, svincolati dai canoni rigidi delle convenzioni accademiche, studiano la natura dal vero per raccogliere un repertorio utile alle composizioni ornamentali o a quelle, allora alla moda, di soggetto venatorio. O, ancora, l’omaggio a Correggio e Rubens nel Sileno imbrattato di more di Coypel, i riferimenti a Guercino della Mietitrice di Jean-François de Troy, che sembra un Courbet – e che Courbet infatti copia più di un secolo dopo.
Questi soggetti di genere, ma anche i miti e i temi religiosi, si affrontano con la libertà di far emergere la naturalezza dei sentimenti più lievi, gli affetti, la grazia degli accordi. L’elaborazione di questi cambiamenti avviene in un dialogo tra scultori e pittori ben esplicitato lungo tutto il percorso espositivo. Per esempio, al bellissimo Diana ed Endimione di Pierre Subleyras, dove è la luce fredda della Luna a scaldare le carni e accendere le cromie, è accostata la terracotta con lo stesso soggetto di Michel-Ange Slodtz, ritrovata recentemente. In entrambe le opere, nate una accanto all’altra, i modelli come il Fauno Barberini sono rivestiti dagli effetti pastosi e vellutati della materia e sciolti nel gioco narrativo. Persino Raffaello, in Subleyras, si trasforma in un’evocazione intelligentemente celata, alle spalle di una delle nature morte più belle del secolo, nel San Camillo de Lellis del Museo di Roma.
Con l’arrivo e il soggiorno ventennale a Torino, Juvarra, architetto regio dal 1714, cerca di raccogliere negli appartamenti di Palazzo Reale, ma non solo, una rappresentazione consapevole di «tutte le scole d’Italia». L’architetto sceglie quindi sculture e pitture dei più rilevanti maestri contemporanei: Beaumont, Ricci, Giaquinto, Crosato, e capolavori come il Solimena di San Filippo Neri, in mostra dopo il restauro (è un gigantesco congegno di incastri tra pittura e chiaroscuro che lascia senza fiato). In questi decenni, tra Torino, Roma e Parigi le declinazioni dell’ornato non possono che differenziarsi, con peculiarità che si colgono bene negli esempi in mostra; come si seguono bene, nelle ultime sezioni, le acquisizioni della «generazione 1715», che porteranno nel cuore del secolo un’eterogeneità di soluzioni sempre meno imbrigliate agli artifici mondani della rocaille: Vien o Pierre o ancora, in scultura, in un rinnovato rapporto con l’antico, Collino, gli allievi Bouchardon Pigalle e Vassé, mentre Batoni, su cui la mostra si apre e si chiude, con «il suo disegno tenero, grandioso, di belle forme», ha tutte le carte in regola per attrarre il giovane Canova.