Bisognerà dedicare un capitolo di una futura storia di Emilio Vedova (1919-2006) alle mostre curate da Germano Celant, dalla grande retrospettiva veneziana del 1984, fra Ala Napoleonica del Correr e Magazzini del Sale, a quella, in corso fino al 9 febbario, alla Sala delle Cariatidi di Palazzo Reale a Milano. Nei trentacinque anni compresi fra l’ultima stagione dell’artista e le grandi celebrazioni postume si dipana infatti un percorso diretto alla spettacolarizzazione del dato espressivo: non si può fare a meno di restare a bocca aperta di fronte alla potentissima macchina teatrale milanese, dove l’urlo rabbioso del veneziano, portato a una perentoria istanza tridimensionale, sembra sfidare la magnificenza rovinosa del luogo.
La storia di Vedova pittore, infatti, è narrata come un antefatto per tappe salienti nella Sala del Piccolo Lucernaio, dove a una scelta di undici dipinti e sette bozzetti è chiesto di riassumere tutto l’universo espressivo dell’artista dagli anni quaranta alla fine del secondo millennio, accompagnando a mo’ di illustrazioni delle ampie didascalie cronologiche: un preambolo su cui soffermarsi un attimo, fra «storicizzazione e immersione» secondo le parole del curatore stesso, prima di accedere al grande spettacolo della messa in scena pensata dallo studio Alvisi Kirimoto dividendo longitudinalmente il grande salone con una parete lunga trentaquattro metri e alta più di cinque, in modo da creare due ambienti riservati ai Plurimi degli anni sessanta e ai «tondi» che irrompono nella pittura degli anni ottanta.
Due momenti cruciali, insomma, attorno ai quali far ruotare il senso complessivo di tutta un’esperienza artistica irrelata dal suo tempo e fluttuante nella dimensione di un eterno presente: la sintesi, insomma, in luogo dell’analisi; l’amplificazione in luogo della filologia, ma con l’intelligenza di un’orchestrazione che riesce a restituire al presente l’enfasi necessaria all’esperienza empatica dell’opera d’arte.
Bisognava passare dalle mostre dell’Arte Povera, forse, per teatralizzare la pittura di Vedova al di là delle sue specifiche collaborazioni con il teatro, o per spingere l’artista stesso ad accentuare alcune premesse potenziali. Nel poderoso catalogo edito da Marsilio – ultimo di una serie di grandi volumi fra cui merita ricordare almeno De America editato dalla Galleria dello Scudo di Verona (Skira 2019) –, Celant rimodula le ben note cronologie illustrate, quasi un marchio di fabbrica, e rimonta in un’unica narrazione riflessioni compiute nel corso degli anni e nuove letture, ribadendo che la complessità irriducibile della sua pittura va accettata abdicando a una visione complessiva, con l’idea, piuttosto, di «perdersi in un arcipelago d’isole e di atolli vulcanici, soggetti alle fluttuazioni e alle maree del tempo».
Per molti aspetti, in effetti, l’opera di Vedova è sfuggente: l’impatto emotivo della sua pittura è tale da rendere difficile uno scandaglio che superi le istanze ideologiche e fenomenologiche chiaritesi entro i primi anni sessanta. L’opera di Vedova andava infatti oltre quei «manifesti universali» con cui Crispolti nel 1957 aveva chiarito la continuità del suo lavoro dal mito della macchina come esplosione post-futurista (a tratti simile, forse, alle proposte plastiche di Umberto Mastroianni) alla competizione aperta con l’all over americano: si potrebbe anzi dire che l’evoluzione della sua ricerca va dal gremire la tela di segni al coprire lo spazio di pittura. Nel momento in cui il quadro non era più sufficiente a supportare quella rabbia incontenibile e reiterabile all’infinito, il segno perde la sua funzione di racconto per diventare qualcosa che agguanta i compensati spezzati e assemblati con cerniere e incastri per dare vita a strutture tridimensionali che irrompono sulla scena come monumentali relitti premonitori, il cui severo giudizio morale, avrebbe detto Argan, richiama alla responsabilità individuale: non è un caso che la città di Berlino ricorra ossessivamente nei titoli di queste opere, e sembra un sottofondo indispensabile a questa messa in scena la musica di Luigi Nono, o, andando a ritroso, quella di Arnold Schönberg.
Il segno-colore marca l’intervento dell’artista, aggredisce la superficie come già la scultura polimaterica futurista, perdendo la propria potenzialità narrativa in favore di una funzione connotativa: il gesto non vale più in sé come traccia di uno stato emotivo momentaneo, ma è graffito murale che fa vibrare i piani annullandone il valore plastico-spaziale ma chiarendo la distinzione di «quinte» con nervosi inserti cromatici e vistose discontinuità del segno. Come osserva Celant, davvero «tutti i materiali di Vedova circolano nel colore».
Al contempo, però, quell’esperienza traghettava verso una gestualità più ampia, pronta a far fronte alle istanze degli anni ottanta dalle tele sempre più grandi fino ai dischi dipinti su ambo i lati: mano a mano che il gesto di allarga, scandendo grandi itinerari dentro la tela anziché vortici multifocali, si conferma la «misura» corporea dell’azione, nella quale si legge distintamente il raggio di apertura del gesto tracciato facendo perno sulla rotazione del polso, del gomito o della spalla. Vedova fa parte dei tempi: il gigantismo di questi dipinti, imparato studiando e copiando i teleri dell’amatissimo Tintoretto, era pronto al confronto con Baselitz e coi selvaggi degli anni ottanta.
Da pittore e da docente d’Accademia a Venezia, dunque, egli si trova a fare i conti con la sopravvivenza dell’Informale al momento del suo recupero formale slegato dai moventi originari. È qui che decide, infine, di compiere il salto implicito verso la scenografia, verso strutture tridimensionali programmatiche, di più esplicito abbrivio retorico. È forse improprio parlare di scultura, per quanto queste opere abbiano avuto qualcosa da dire agli scultori più giovani circa le ipotesi di precarietà dell’immagine. Eppure non arriva alla scultura colorata: il disco che si incunea fra legno e ferro come un meteorite rimane spazio dipinto autonomo; a mutare è la presenza scenica di questo campo di pittura, emancipato dalla collocazione a parete, violato a volte da inserti come una carena di nave sfondata o un relitto.
Sono lontani i tempi di Intolleranza 60 di Nono, archiviati per fare spazio a Chi brucia un libro brucia un uomo (1993), quando Vedova codifica la retorica di una memoria ufficializzata. Sul finale, in pompa magna, è la pittura stessa, strappata e sagomata, a fare «concerto» di sé, a incombere, fuori dalla protesta, con solenne, cupa, irosa grandezza.