Dal libro d’arte “Vedovas Angeli”, 1989, introduzione di Massimo Cacciari

Sembrerà paradossale per un artista tanto libero, così laico nell’alternanza delle tecniche, ma la grafica è un esito ritardatario dell’arte di Emilio Vedova (1919-2006) ed è un dato non ancora perfettamente chiaro al senso comune, come oggi testimonia la mostra ospitata dalla Casa Museo Osvaldo Licini, Vedova, oltre il colore Etica ed estetica del segno (in collaborazione con la Stamperia d’arte Albicocco e la Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, fino all’8 gennaio, info: 3349276790), nel nitido allestimento di uno storico della grafica quale Roberto Budassi e di Daniela Simoni cui si deve oramai da tre lustri la guida, con mano espertissima e ferma, della stessa Casa Licini.
Dei circa ottanta pezzi esposti (e censiti nell’agile catalogo, insieme con i testi dei curatori: «Quaderni Liciniani», pp. 95, € 15.00) l’incunabolo è una litografia su carta di modeste dimensioni, datata 1961-’62, dove un nero denso e che allude alla terza dimensione esce dal suo groviglio per accerchiare e intanto incorporare con una specie di tenaglia il titolo, Spagna oggi.
L’esordio non potrebbe essere più indiziato nel rapporto o anzi nella fisica colluttazione tra forma e politica, perché da un lato c’è il segno grafico invasivo e persino oltranzista, lo stesso di chi ha rotto una volta per sempre con il Fronte Nuovo delle Arti disubbidendo a un neorealismo che sentiva esteriore e oleografico, ma dall’altro c’è l’empito dell’ex partigiano e militante del Pci, Emilio Vedova, che riceve i fatti del suo tempo vibrando alla stregua di un diapason: Spagna oggi è idealmente dedicato a Julian Grimau, il dirigente comunista allora assassinato da Franco, ed è un’opera da leggersi sia in concomitanza con la poesia di Franco Fortini, Canto per noi (poi musicata da Sergio Liberovici), sia a contrasto con il poster (il volto di Grimau ricalcato su una foto e macchiato di sangue) che Renato Guttuso ha fatto uscire sulla prima pagina dell’Unità.
Che la forma per Vedova sia politica tout court lo conferma il ciclo immediatamente successivo e relativo alle grandi sollevazioni del ’68-’69 dove egli scatena il suo plurilinguismo esaurendone la gamma tra litografie, acquetinte, calcografie e soprattutto serigrafie di cui Vedova peraltro avvalora proprio la serialità contro il purismo di chi teme la perdita dell’aura: qui la violenta conflittualità dei tempi è tutta quanta introiettata nello screpolarsi e abradersi dei neri come nel loro deragliare ai limiti della dissoluzione, tanto che l’artista, ormai impaziente della bimensionalità del tramite, presto avvia i cicli delle Litoplurime e Seriplurime, vale a dire le espansioni e le articolazioni (il supporto è di preferenza ligneo) che tendono a dislocare l’opera in diverse ante stereometriche, raccordate all’interno, e nello stesso tempo ad accogliere l’osservatore, talora a inglobarne lo sguardo.
Già nel 1975 Giuseppe Marchiori ne rilevava precisamente l’importanza dicendo di «un cosmo complesso di immagini». Quando perciò si afferma che Emilio Vedova è arrivato tardi alla grafica appassionandosene al punto da trascurare a lungo la pittura, in effetti si dice soltanto una mezza verità: il fatto è invece che per lui grafica e pittura tendono via via a convergere, a ibridarsi in un vero e proprio gioco delle parti dove si insinuano a cadenza fendenti gialli, blu intensissimi o dense spatolate di rosso, e qui basti citare ad esempio uno dei gioielli della mostra, Oltre 88-’15, l’occhio vorticoso di un uragano grafico che il trompe l’oeil vieta di riconoscere come pittura acrilica su carta intelata. Il problema semmai è filologico perché, al momento, noi non disponiamo di un regesto scientifico della sua produzione grafica. Né Vedova abbandona mai un’ostinata pignoleria quanto alla accuratezza della realizzazione laddove «le sue matrici sono ancora più belle delle stampe», scrive Budassi, da realizzarsi preferibilmente con inchiostro nero 66 di Charbonnel e su carta Magnani di Pescia il cui bianco rilucente è da preferirsi al bianco esatto della Rosaspina di Fabriano: stampatore prediletto, va aggiunto, rimarrà sempre il maestro Corrado Albicocco da Udine.
Rileva, in proposito, Budassi: «Le morsure erano diverse e ripetute, con tempi di corrosione variabili; l’immersione della matrice nel bagno acido si prolungava nelle diverse gradazioni, ma spesso la lastra stessa veniva ‘acidata’ direttamente a pennello, ottenendo quegli effetti di granulosa marezzatura argentea, che sono uno dei tratti più preziosi e caratteristici della sua grafica». Una perizia lenticolare che liquida lo stereotipo di Vedova tutto vibrante di estri tellurici, impaziente e ditirambico, quando basterebbe sorprenderlo al lavoro (come nel buon documentario in Sky Arte, Dalla parte del naufragio, regia di Tomaso Pessina) alle prese con la sua singolare action painting rilevabile nel ciclo degli Oltre (per lo più anni ottanta e novanta) quasi in una terra di nessuno e al di là dell’eterna egemonia che l’arte tradizionale assegna alla linea e al cerchio: se tuttavia Jackson Pollock entrava e camminava sulla tela, viceversa Vedova le sta davanti corpo a corpo e sembra volerla circumnavigare con le sue lunghissime braccia protese nel gesto della apertura alare. Come se agendo distillasse miele e veleno o comunque ricevesse il portato dei non molti maestri cui da sempre guarda con ossessiva ammirazione, in primis Tintoretto, quello più liquido e sulfureo de L’ultima cena in San Giorgio Maggiore, poi Goya, ovviamente Picasso ma specialmente Piranesi perché anche la grafica di Vedova (in certe chiazze di nero che rammentano moduli o multipli di rovine) ribadisce che la sua Venezia, sempre veduta di scorcio o con il filtro di una densa caligine, è ai suoi occhi una città piranesiana.
Ed è ben chiaro nella zona culminante della mostra – siamo nell’interrato di Casa Licini – concernente documenti e reperti dei due soli libri d’arte che Vedova abbia mai realizzato in vita sua, il secondo a quattro mani con Massimo Cacciari e in edizione bilingue, Vedovas Angeli (Klagenfurt-Venezia 1989). Qui l’evocazione dell’Angelus Novus di Paul Klee, e sottotraccia del ciclo liciniano degli Angeli ribelli, può sembrare di prammatica ma Daniela Simoni ricorda che la fiogura dell’angelo è metafora dell’arte di Vedova e «ha carattere di bipolarità: è espressione di un ordine superiore ma suscita il caos, irrompe senza preavviso squarciando il tempo e lo spazio – come l’angelo nell’Annunciazione di Tintoretto in San Rocco –, crea sconvolgimento e insieme è messaggera, intesse un dialogo tra diverse dimensioni, è angelo e demone, coniuga purezza e terribilità».
Del resto lo stesso Emilio Vedova, che fu scrittore prodigo quanto desultorio, lasciò detto che i suoi angeli vanno e vengono alla frontiera dell’essere qui-e-ora, tra il bianco di insperabili catarsi e il nero profondo delle nostre disfatte.