«Le colline, i vigneti, i muri a secco e le case mi appaiono pressoché immutati… Ma le cascine, per chi le ha vissute come me, sembrano aver perso l’anima. È morta tutta quella generazione di contadini che, come i miei nonni, erano stanziali, non avevano l’auto, non si erano mai mossi; sono spariti quegli sguardi diffidenti, quasi di sfida… Dove sono spariti quei vasi verniciati di verde con soltanto il bordo color mattone? E tutti quelli inventati usando latte, vecchie pentole o impilando copertoni consunti?… La maggior parte delle cascine che ho visto mi sono sembrate finte, prive di anima, modelle da copertina. E i poveri cani alla catena con la cuccia nella botte di cemento per il verderame ribaltata… le aie con le galline?… Così, mentre ricerco odori, sapori e sensazioni della mia infanzia dalla cima triforcata del mio gelso, mi riprometto che nei prossimi giorni andrò alla ricerca dell’anima perduta delle cascine».

Non profumano di madeleines i ricordi di Primo, tornato nel paesino di Camo, Piemonte, Langhe, trent’anni dopo l’ultima estate trascorsa lì; l’estate dell’amore adolescente e incancellabile per Giada, e della rabbia che ha fatto di lui un assassino. Al di qua del fuoco, debutto narrativo di Ugo Vittorio Martino per le edizioni La torre dei venti, è ‘Recherche’ di un tempo perduto che accomuna protagonista e autore del romanzo, consegnandoci un’immagine delle Langhe solidamente ancorata alla realtà dell’oggi. Quella realtà, nascosta tra la bellezza delle vigne, le pieghe dolci delle colline, la dignità antica dei borghi, parla di un territorio dove i campi di grano non esistono quasi più, cemento e sgarbi edilizi sono presenze visibili, il turismo ha portato benessere e insieme squilibri.

La storia di Primo non sarebbe nata se Martino, un quarto di secolo fa, non fosse venuto a vivere nella cascina paterna di Camo per coltivare i filari di vino moscato. La storia di Primo non sarebbe nata se Martino non avesse imparato a conoscere, e a capire, la diffidenza della gente di Langa; se non ne avesse condiviso la solitudine e il lavoro; se nella dimensione di Camo non avesse percepito quel fondo di amaro che il passato deposita dentro ciascuno di noi. La storia di Primo attraversa Santo Stefano Belbo, Mango, Cossano Belbo, Castino, breve viaggio di cui abbiamo allungato i chilometri fino a Cortemilia, teatro della Sagra della Nocciola nei due weekend di fine agosto.

Andare in cerca di cascine superstiti come Ugo Vittorio suggerisce «Con le galline, le capre, l’offerta di un bicchiere di vino fatto in casa senza enologi pluristellati» è forse un po’ complicato. Occhi attenti e curiosi sapranno invece andare oltre il richiamo turistico per afferrare almeno un lembo dell’anima di ciascun luogo. Dice Martino «Ci sono riti, regole di paese non scritte, cui tuttora non ci si può sottrarre. La messa della domenica, ad esempio». Castino la celebra sotto le volte barocche della parrocchiale di Santa Margherita, decorate con affreschi e dipinti eseguiti dalla seconda metà dell’800 agli anni Trenta del ’900: una Deposizione, una bizzarra nave dei Crociati sul soffitto, una mistica santa Caterina di Alessandria, il cerchio dei bambini intorno a una pozza d’acqua, decoro del fonte battesimale. La devozione popolare ha lasciato altri segni, il Sacro Cuore nella lunetta della facciata, e all’interno l’olio su tela che omaggia il santo titolare della chiesetta di San Bovo, traccia residua di uno dei tre monasteri che sorgevano in paese e nelle frazioni circostanti.

Del monastero romanico di San Martino, Decimo Secolo, abbandonato nel 1802 dalle religiose benedettine in seguito alla soppressione napoleonica dei conventi, rimangono la chiesa e la torre campanaria all’interno di una proprietà privata, ma accessibili ai visitatori. La Grande Voce che governa la vita di Castino, di Santo Stefano Belbo, piuttosto che di Cossano (lo dice ancora Ugo Vittorio sorridendo) è fatta di chiacchiere, commenti, sussurri pettegoli. Seguirli a debita distanza nello sciamare del dopo messa conduce alla scoperta delle meridiane murate all’esterno di una casa o sopra l’ingresso di una residenza signorile, delle tante lapidi testimoni della Resistenza nelle Langhe, di una cappella votiva, di una stele romana solitaria tra i vicoli, di un pozzo in mattoni prosciugato da chissà quanto. Per approdare infine, va da sé, al bar principale del paese. Si chiami Bar Sport, del Centro, della Piazza, il pane e salame che serve in compagnia di un quarto di Dolcetto, Barbera, Barbaresco, è proprio come lo straniero goloso se lo immagina.

L’orgoglio dei Langhetti, questo l’appellativo da preferire al cacofonico ‘langaroli’, non guarda soltanto alle vigne, ai noccioleti e agli altri prodotti della terra. Orgoglio è anche e non poco tutelare l’eredità di un castello, forse perché, da queste parti, potersi fregiare di un pizzico di nobiltà, sebbene riflessa, non guasta mai. Sulla collina di Santa Libera, le rovine di un torrione ricordano l’insediamento originale di Santo Stefano e la rocca che lo difendeva. Ai piedi del rudere, una campagna di scavi condotta nel 1989 ha restituito un nucleo abitativo tardo romanico. Mango stesso era un castello, anzi tre (Frane, Vaglio, Vene), dalla cui distruzione, nell’anno Mille, ebbe origine il borgo.

Seicento anni più tardi i marchesi di Busca fecero costruire un maniero barocco sulle fondamenta di un fortilizio difensivo del Duecento, arredandolo sontuosamente e ingentilendo le sue linee severe con un giardino di piante ornamentali e da fiore. Dal 1985 ospita la sede dell’Enoteca Regionale delle Colline del Moscato. Presidio partigiano sul finire della Seconda Guerra Mondiale, il castello è punto di partenza di un percorso storico letterario dedicato al romanzo di Beppe Fenoglio Il partigiano Johnny. Già, Fenoglio. E Pavese? In Al di qua del fuoco, Giada fa conoscere a Primo le pagine dei Dialoghi con Leucò e di Il diavolo sulle colline, e l’immaginaria casa museo dello scrittore diviene ambientazione di un mistero intorno alla scomparsa di un prezioso manoscritto. Fuor di romanzo, negli spazi dell’ex chiesa dei santi Giacomo e Cristoforo, a Santo Stefano, ha sede la Fondazione Cesare Pavese, che organizza accurati itinerari sui luoghi pavesiani.

Dieci i chilometri da Castino a Cortemilia: portici medioevali, pievi romaniche e chiese gotiche, bassorilievi e affreschi, palazzi blasonati, portali e torri. Improvvisa e sottile, nel bel mezzo della Sagra in onore della nocciola, si allunga l’ombra di un rimpianto. Quello di non aver trovato la cascina delle galline, delle capre e del bicchiere di vino fatto in casa. Dieci i chilometri da Castino a Cortemilia. Un altro mondo, un’altra Langa, al di là del fuoco.

Appendice: trattorie di lungo corso nel cuore dello Slow Food
Troppo categorico anche per un luogo eletto come le Langhe affermare che ovunque si capita, si mangia bene. I trappoloni turistici sono in eterno agguato, e dunque occorre non lasciarsi incantare da accattivanti insegne, tovaglie a quadri, menu multilingue in cui giganteggia la scritta ‘Cucina tipica’. Meglio affidarsi a trattorie con una storia solida, inossidabili alle mode.

Cossano Belbo vanta La Trattoria della posta da Camulìn, corso Fratelli Negro 3, 0141 88126. Originario di Camo, il fondatore venne soprannominato Camulìn in virtù della modesta altezza. Ben superiore la sua statura ai fornelli, tale da meritargli larga e indiscussa fama. La famiglia si è via via passata il testimone, e oggi Cesare Giordano continua le gesta gastronomiche del nonno. Al giro di antipasti misti (carne cruda, vitello tonnato, peperone con acciuga, cotechino con fonduta) devono seguire i tajarin burro e salvia o al ragù, per poi scegliere, ad esempio, un supremo fritto misto alla piemontese, e per finire il bonet o il mattone di Canelli.

Spesa media intorno ai 35/ 40 euro vini esclusi. A Treiso, seduti a un tavolo dell’Osteria dell’Unione (via Alba 1, 0173 638303) Carlin Petrini e un gruppo di amici buttarono il seme da cui germoglierà nel 1989 il Movimento internazionale Slow food. A preparare i minuscoli agnolotti del plìn (pizzicotto) chiusi a mano uno per uno, i tajarin, il coniglio ai peperoni cotto nel Barbaresco, il pollo alla cacciatora, i dolci artigianali, c’erano allora Pina Bongiovanni e Beppe Marcarino, che solo di recente hanno ceduto il timone al figlio Fabio e alla nuora Rezi. L’Osteria propone i menu alla carta, Degustazione (40 euro), della Casa e Vegetariano entrambi a 35 euro. Vini sempre esclusi. Il menu della Casa recita: selezione di affettati con frittatine, tajarin al ragù tradizionale o al burro e salvia, pollo alla cacciatora, dolce della casa e caffè. Magnifico il panorama, affacciato a perdita d’occhio sulle colline.