La manovra del governo è dettata da una visione liberista. Il giusto rimprovero ai governi precedenti di non aver attuato politiche di espansione della domanda diviene inutile retorica quando si propone la flat tax e spaccia un sussidio temporaneo di disoccupazione – un Jobs act 2 – come se fosse un «reddito di cittadinanza».
Ci si affida di nuovo a ricette liberiste che pongono al centro del problema la riforma del mercato del lavoro, come se un mercato più flessibile possa far aumentare l’occupazione, ignorando i lavoratori. In realtà un mercato più flessibile non garantisce la piena occupazione, altrimenti nel Bangladesh, dove il mercato del lavoro è fin troppo flessibile, ci sarebbe una disoccupazione vicina allo zero.
Il governo è ancora fermo alla disputa tra fondamentalisti del libero mercato e «riformatori», ma non si accorge che l’economia è cambiata nel tempo e di conseguenza propone politiche economiche per qualcosa che non c’è più. Sono ormai più di 30 anni che esiste quello che alcuni economisti hanno definito come il «grande disaccoppiamento», cioè la produttività continua ad aumentare (e con essa il Pil), mentre l’occupazione no. È il fenomeno della crescita senza lavoro: con la rivoluzione dell’intelligenza artificiale – nota anche come «rivoluzione 4.0» – crescere non vuol dire avere più lavoratori da assumere perché al loro posto lavorano i robot – più affidabili e meno costosi.
In aggiunta a questo ci sono altri tre fatti mai visti prima. I salari sono fermi al livello di anni fa, mentre la loro quota sul Pil è in costante diminuzione. La classe media sta scomparendo poiché i robot pian piano la stanno rimpiazzando: si verifica così una polarizzazione nella distribuzione coi ricchi sempre più ricchi ed i poveri sempre più poveri. Infine, esiste il fenomeno tutto nuovo dei poveri che lavorano, cioè di persone che hanno un lavoro – spesso un mini-lavoro o un’occupazione precari – con retribuzioni così modeste da porli a rischio di povertà relativa o emigrazione.
Non possiamo pensare di poter risolvere questi problemi nuovi con politiche vecchie. Abbiamo bisogno di una politica veramente redistributiva che sappia coniugare il nuovo modo di produrre con la responsabilità fiscale. La proprietà dei robot andrà condivisa in modi di partecipazione produttiva e gli sbandierati controlli sui furbetti del sussidio temporaneo applicati alla piaga dell’evasione fiscale.
La politica di flat tax ha una fantastica serie di fallimenti perché si basa sulla bizzarra idea che facendo diventare i ricchi ancora più ricchi le loro briciole cadranno a pioggia sui poveri migliorando il benessere di questi. La metafora di solito utilizzata è che la marea fa sollevare sia le barche piccole che gli yacht di lusso. La distribuzione del reddito è tale che l’1% della popolazione italiana possiede il 50% della ricchezza. Proseguendo nella metafora, tra il 99% ci sono molti che non solo non hanno una barchetta, ma non sanno nemmeno nuotare. E se la marea aumenta, possono affogare.
La poca produttività è additata come la responsabile principale del declino italiano. Ma il suo aumento dipende dalle spese in ricerca e sviluppo, non cade mica dal cielo. Nel decennio 1995 -2005 il tasso di crescita annuo negli investimenti in R&D è stato in Italia del 2,6% ed è poi sceso all’1,7% nel periodo 2005–2012, mentre la media Ocse è stata del 3,7% e 2,9%. Per tacere del problema del riscaldamento globale: abbiamo bisogno di un «new deal» verde europeo che sappia indirizzare la produzione verso direzioni non più in contrasto con la natura e, semmai, investimenti e nuovi lavori che ne ripristino il capitale. C’è bisogno di investimenti che inventino nuovi lavori e stimolino la ricerca accanto ad un reddito di base finanziato dalla redistribuzione fiscale per sostenere la domanda.