Un biglietto da visita per entrare nel salotto buono. Lo vedono cosí i brasiliani il Mondiale 2014 che si giocherà in casa loro. Un’occasione unica, dicono, per mostrare al pianeta un paese con una democrazia consolidata, un’economia con un tasso di crescita invidiabile, leader in Sudamerica, voce che si fa sentire a livello globale. E non hanno tutti i torti, perché nonostante la brusca frenata dell’anno scorso l’economia del Brasile, negli ultimi dieci anni, è cresciuta al ritmo del 4%. E per il 2013 si prevede un’espansione del 3,6%. La crisi europea non si fa sentire. L’aumento della ricchezza nazionale è palpabile: dall’industria aeronautica a quella automobilistica, dall’agricoltura al terziario avanzato. La disoccupazione è scesa al 5,5%; le povertà diminuisce; la salute diventa un patrimonio di molti; cresce la classe media e il consumo, i prezzi volano alle stelle tanto che fra vivere a Rio e New York la differenza quasi non si percepisce. Non che di colpo tutti i problemi siano spariti.

Le favelas dipingono ancora il paesaggio metropolitano; il tasso di violenza e la criminalità continuano ad essere elevati; la corruzione, male endemico, nonostante indagini, denunce, processi è ancora lì. Certo. Ma l’immagine del paese, agli occhi di chi ci vive, sta cambiando. E la si vuole mostrare al mondo. Il Mondiale prima, e l’Olimpiade 2016 poi, sono la vetrina perfetta per mettere in scena questo nuovo Brasile, e per incrementarne, grazie ai nuovi flussi di denaro pubblico e privato, la sua potenza economica.

C’è dunque, da un lato, orgoglio e speranza che i due appuntamenti siano qualcosa di buono per il paese, dall’altro preoccupazione e sfiducia. Sì preoccupazione per non essere all’altezza, perché molto di ciò che è stato promesso in infrastrutture, dagli aeroporti alla autostrade, non sarà ultimato in tempo, perché si dubita di come verrà speso il denaro pubblico, perché c’è il timore che nel 2016, finita l’Olimpiade, la crescita del Brasile scoppi come una bolla di sapone.

[do action=”quote” autore=”Felipe Scolari”]«Lula ha lavorato bene. Vedrete, il nostro boom non è una bolla»[/do]

«Fuori dal paese sento parlare spesso di questa possibilità- dice Luiz Felipe Scolari, 64 anni, allenatore della nazionale di calcio brasiliana- ma onestamente non credo che la crescita della nostra economia sia vicina al punto di stallo. Non lo credo per tutto il lavoro che è stato fatto dal governo a cominciare dal presidente Fernando Enrique Cardoso. Un cammino che Lula ha seguito, perché era quello corretto, e che oggi Dilma (Rousseff [ndr) con alcuni aggiustamenti e con scelte equilibrate sta portando avanti. In questi ultimi 15 anni molta gente è uscita dalla povertà, si è allargata la classe media, l’economia è cresciuta».

«Oggi – aggiunge Scolari – importiamo manodopera straniera mentre prima eravamo costretti ad emigrare per lavorare. Lo stesso succede con i calciatori. Anni fa se ne andavano a giocare in Europa, oggi ritornano in Brasile perché i club possono pagare salari al livello delle grandi squadre del vecchio continente, perché sognano di giocare la coppa del mondo nel loro paese. E sperano che l’allenatore, che poi sono io, li includa nella rosa della Seleção». Ha ragione Felipão: il Brasile insieme all’Argentina è stato, a partire dagli anni ’80, grande esportatore di talenti calcistici, ma la tendenza, negli ultimi anni, è cambiata: nel 2012 più di 1.100 calciatori sono tornati a casa: i campionati, come l’economia del paese si sono fatti più attrattivi e ricchi. Basti pensare che i ricavi dei Top100 club brasiliani sono passati da 302.821748 milioni di euro del 2003 a 1.03234687 miliardi di euro nel 2012. Il Corinthias ha visto crescere gli introiti del 481% mentre il Santos ha raggiunto la cifra record del 548%.

Più denari nel futebol tanto che oggi Neymar, il nuovo dio del pallone, con 20 milioni di euro annuali è, secondo France Football il quinto giocatore più pagato al mondo. Con i suoi tredici sponsor personali non ha bisogno di emigrare per denaro. E non ha bisogno, come fece nel 1961, con Pelé il governo brasiliano per prevenire le tentazioni delle squadre europee di essere dichiarato patrimonio nazionale. Ma attenzione non è tutto oro quel che luccica.

«La mancanza di trasparenza, l’opacità nella gestione della federazione calcio e dei club è un problema molto grave – sostiene Damo Arlei, professore di antropologia all’Università Federale di Rio Grande do Sul – Ricardo Teixeira, presidente della Confederação Brasileira de Futebol per 23 anni ne è l’esempio. Si dimise l’anno scorso dopo che la Fifa denunciò che insieme a suo suocero, Joao Avelange, ex presidente della Fifa, aveva ricevuto bustarelle per svariati milioni di franchi svizzeri dall’impresa Isl per diritti sui mondiali. E oggi – aggiunge Arlei – il nuovo presidente della Cbf, José Maria Marìn è un personaggio oscuro, accusato di connivenza con la dittatura militare». Non c’è solo l’opacità, chiamatela pure corruzione, a far scattare l’allarme: la violenza da stadio non cessa. 155 i morti dal 1988 al 2012, secondo le cifre pubblicate dal quotidiano sportivo Lance.

E gli ultimi episodi non lasciano ben sperare. A Belo Horizonte, il 4 aprile, al termine di Atletico Mineiro-Arsenal Sarandi di Coppa Libertadores che i brasiliani vincono per 5-2, trascinati da una doppietta dell’ex milanista Ronaldinho, la polizia interviene per calmare gli animi e punta i fucili contro i giocatori argentini dell’Arsenal Sarandi. A marzo i torcedores, ovvero gli ultras, del Palmeiras dopo la sconfitta nella Coppa Libertadores contro gli argentini del Tigre aggrediscono, nell’areoporto di Buenos Aires, i loro giocatori. A dicembre dell’anno scorso il Tigre, impegnato a San Paolo nella finale di ritorno di Coppa Sudamericana, sotto 2-0 all’intervallo, si rifiuta di tornare in campo denunciando che gli uomini della sicurezza dello stadio hanno malmenato i calciatori minacciandoli, dentro gli spogliatoi, pistole alla mano.

«C’è una grande impunità nei confronti della violenza, ci sono legami e relazioni nient’affatto chiare fra dirigenza delle società e torcedores. Qualche club come il Palmeiras ha reagito, ma in altri casi regna l’omertà assoluta» spiega Martìn Fernandez, giornalista della Folha di San Paolo. «Immagina che un episodio come quelli degli ultimi mesi capiti durante il Mondiale… – dice Ronaldo Helal, professore di sociologia all’Università statale di Rio de Janeiro- Facciamo un passo indietro: O Maracanaço (la sconfitta del Brasile ad opera dell’Uruguay nella finale del mondiale 1950 disputata nel Maracana di Rio de Janeiro) fu vissuto non solo come una sconfitta sportiva, ma come una sconfitta della nazione, mentre la vittoria nel Mondiale del 1970 fu recepita come la vittoria di un progetto di nazione. Oggi è diverso. Il Brasile ha vinto nel ’94, ha perso una finale nel ’98 e ha conquistato il titolo nel 2002, ma la gente ora anche se continua ad esserci una correlazione molto forte fra Seleção e nazione, lo vive come evento sportivo. Oggi la preoccupazione è dimostrare al mondo che abbiamo la capacità di organizzare e gestire in tutta sicurezza il mondiale».

Il concetto è chiaro. Parliamo di calcio giocato. Com’è questa Canarinha che fra 15 mesi disputerà la Coppa del Mondo. «È una squadra in formazione, non c’è ancora uno schema tattico definito e una rosa di giocatori stabile– spiega Walter Casagrande, ex attaccante di Ascoli e Torino, oggi opinionista televisivo di Rede Globo – Felipe Scolari ci sta lavorando, ma ha appena iniziato quindi in giugno, alla Confederation Cup, la nazionale sarà ancora in fase sperimentale. Spero sia a punto per il Mondiale».
E il diretto interessato, l’uomo che è stato chiamato, nel novembre 2012, e in tutta fretta a rimettere sul giusta strada la Seleção che ne pensa ? «Ha buone possibilità – dice Scolari -, ma non è il Brasile del ’70. Non siamo un gradino piú in alto come lo eravamo venti o trenta anni fa. Oggi i valori, nel calcio mondiale, sono molto piú livellati. Stiamo cercando di costruire una nazionale ben organizzata sotto l’aspetto del gioco e della tattica, ma dal mondiale del 2006 il rinnovamento è stato lungo e ha dovuto affrontare grandi difficoltà dopo che sette/otto calciatori di quel campionato hanno smesso di giocare. Ci troveremo di fronte a squadre europee e sudamericane con grandi giocatori e molto bene organizzate.

C’è la Spagna che gioca come il Barcellona, la Germania un grande team, l’Italia che è una nazionale diversa dagli stereotipi del passato. Diversa da quella tradizione che voleva una squadra capace solo di difendersi e di marcare l’avversario. Ha giocatori giovani, creativi e molto bravi. Mantiene una difesa solida, ma gioca più libera, più sullo spazio, con più qualità tecniche. Mi piace molto Prandelli come persona e come lavora».

Si va bene… ma lei, signor Scolari ce la farà a far dimenticare ai brasiliani O Maracanaço. «In Brasile vediamo le cose attraverso le statistiche: l’Italia giocò in casa due mondiali. Ne vinse uno e ne perse uno. La Germania giocò in casa due mondiali, idem. Noi ne abbiamo giocato uno e l’abbiamo perso: ora vogliamo solo rispettare le statistiche».