Varsavia ribadisce il suo «nie» a Bruxelles sull’accoglienza ai rifugiati. «Un via libera ai profughi sarebbe comunque peggio delle multe dell’Ue», ha dichiarato il ministro degli Interni polacco Mariusz Blaszczak in un’intervista concessa al canale pubblico Polskie Radio Program. È una risposta a muso duro quella del governo della destra populista di Diritto e giustizia (PiS) alla Commissione europea.

«Ungheria, Polonia e Austria sono gli unici Paesi che non hanno portato a termine alcun ricollocamento in violazione degli obblighi legali, degli impegni presi con l’Italia e la Grecia, nonché del principio di responsabilità condivisa», si legge in una nota Ue. Blaszczak ha poi proseguito il suo ragionamento tirando in ballo il passato coloniale dell’Europa occidentale: «È un problema dei Paesi occidentali che un tempo sfruttavano la ricchezze dell’Africa e dell’Asia. Adesso ne stanno pagando le conseguenze. Chiedere alla Polonia di contribuire ad ogni risarcimento è ingiusto».

La linea intransigente sul fronte accoglienza era stato uno dei cavalli di battaglia del partito fondato dai fratelli Kaczynski durante la campagna elettorale per le politiche nell’autunno 2015, vinte poi dal PiS. Allora, poco prima delle elezioni, la formazione di centro-destra Piattaforma civica (Po) dell’attuale presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, aveva annunciato l’accoglienza di 5000 persone, oltre a una quota di 2000 rifugiati come concordato ancora prima con l’Ue. Proprio l’impegno tradito del PiS ha dato il via ad una stagione di rapporti turbolenti tra Varsavia e Bruxelles. Fino ad oggi la Polonia non ha ricollocato alcun rifugiato sul proprio territorio.

L’anno scorso il trasferimento di 35 persone dall’Italia non è andato in porto per supposte difficoltà ad identificare i richiedenti asilo. Ma è anche la volontà degli enti locali a latitare nel paese.

Secondo i dati raccolti dalla Helsinki Foundation for Human Rights, meno del 3% delle gminy (la gmina è la più piccola unità di divisione territoriale in Polonia, ndr) si sono dichiarate non disposte a aprire le porte ai rifugiati. Emblematico il caso di una ventina di famiglie cecene in fuga dalle torture e dal regime di Kadyrov. Le persone, tra i quali molti bambini, in alcuni casi anche orfani, continuano a vivere accampati da mesi nella stazione ferroviaria di Brêst, città bielorussa al confine con la Polonia nell’attesa vana di poter presentare domanda di asilo a Varsavia.