Il nuovo libro di Niccolò Nisivoccia, Variazioni sul vuoto (Le Farfalle, pp. 56, euro 10), prosegue la ricerca del suo precedente dedicato alla fragilità. In questo lavoro dove la prosa poetica e la forma aforistica sembrano attagliarsi alla scivolosità del reale, Nisivoccia – collaboratore di questo giornale – propone un plesso semantico che mostra di maneggiare con cura.
Cosa sia il vuoto infatti è una domanda umana che a ogni angolo del mondo ha trovato risposte differenti, articolate secondo altrettante tradizioni e campi di indagine. Nisivoccia si muove dunque tra le pieghe di una difficile sistemazione che non reclama compiutezza bensì peregrinazione. Nei dintorni, osserviamo famiglie di parole che tornano come una risacca, l’affiorare della vita e della morte, come del bene e del male.
Rintocca una promessa di effrazione nei confronti dei significati di seconda mano, si trasforma la rottura degli argini per «liberare le forme che trattengono, esondare nel vuoto, nell’infinito, nello spazio senza margini dove i corpi e le volontà si abbandonano». È una eloquenza soggettiva là dove si fa avanti «la sorpresa, il miracolo delle cose quando si rivelano per quello che sono». Il disincanto di ascoltare questo vuotarsi apre allora a considerazioni politiche come slabbro della storia e della memoria, sia pure non si tratti più di un eteronimo come Álvaro de Campos. È invece un Sé che vagola e affonda, nelle due direzioni di sprofondamento e speculazione.
Se il vuoto è ciò che fa spazio a un accadere imprevisto, la nostalgia delle cose che abbiamo immaginato succedessero ha la consistenza di una immagine precisa, per esempio «nel buio, trovare una mano che prende le nostre, e le accarezza». Fermarsi a osservarlo, questo vuoto, pone questioni anche politiche, di agibilità, soprattutto in un tempo gramo e misero come quello presente in cui il «troppo-pieno» si addensa in una indistinzione che rende lo spazio pubblico ingeneroso e desertificato.
Vi è però una minuscola possibilità che si possa fare ordine grazie al vuoto, fermarsi poco prima del precipizio e osservare quanto questa assenza consenta di richiamare al necessario. Può essere una pratica tesa alla sottrazione e di cui Niccolò Nisivoccia sembra essere avvertito, con sapienza. Fin dalla scelta di una forma letteraria in prosa poetica che, a differenza di molti e spesso inservibili trattati, sa arrivare al punto di ciò che ci dovrebbe stare a cuore.