Punti interrogativi come ancore cui aggrapparsi tenacemente, contro la deriva del mantra “andrà tutto bene”. Avevano tinteggiato di giallo, con variabile densità, la nera mappa peninsulare apparsa un mese fa sul sito dell’evento e ripresa dalle homepage degli oltre 130 locali partecipanti. Sabato sera, a un anno esatto dalla chiusura, quei punti interrogativi ne hanno invaso le scene rivelandone l’attuale condizione a noi che possiamo solo sbirciare da porte socchiuse: spazi deserti il cui silenzio è interrotto solo dall’eloquente bruitage di cavi scollegati, strumenti riposti, palchi smontati. E quindi no, non c’è stato nessun concerto. Non poteva esserci, non adesso, non così. “Musica dal vivo a distanza” è un’insostenibile contraddizione in termini: o è in presenza o non è. La musica non può andare in Dad e non può essere smart, non c’è asporto o delivery che tenga. È questo il senso dell’evento non realizzato sabato sera — promosso da Arci, Assomusica, KeepOn Live, Dma da un’idea della Plataforma de Salas de Conciertos — al cospetto di un’adesione quasi plebiscitaria degli artisti italiani. Subsonica, Marlene Kuntz, 99 Posse, Brunori, Diodato, Zen Circus, Ligabue, Caparezza, Roy Paci. E altri ancora, a decine, gli interpreti che non hanno suonato su oltre cento ribalte riportate in scena: Alcatraz, Hiroshima Mon Amour, Asino che vola, Candelai, impossibile elencarli tutti. Ancor più significativa la presenza fisica di tutte quelle figure professionali indispensabili alla realizzazione materiale di un concerto. Gestori, fonici, addetti al palco, tecnici dell’audio e delle luci, principali vittime di un progressivo svilimento professionale — che il virus ha solo smascherato — causato da sciagurate scelte economiche, politiche e sindacali di lunga data.

A ESSI VA LA SOLIDARIETA’ di classe degli operai Whirpool, intervenuti sul “palco” dei 99 Posse. Nel febbraio 2020 la musica dal vivo costituiva il primo settore per presenze, secondo solo al cinema per numero di spettacoli e allo sport per volume di affari. Dopo dodici mesi e 15000 eventi cancellati le perdite per i live club sfiorano i 50 milioni di euro, e molte di quelle porte (il 49%) rischiano di non riaprire più. Per alcuni l’Ultimo Concerto è stato il più grande flashmob della musica italiana, per altri un evento fake (con l’ampia gamma di sfumature cui l’aggettivo si presta). Una performance situazionista, potremmo dire. E la situazione è questa: «La realtà che viviamo oggi, che rischia di essere anche il nostro domani», scrivono gli organizzatori i quali sono finalmente riusciti a fare rete in un ambiente, quello dei live club, non sempre encomiabile per senso di unità e coesione. Luoghi che però vogliono e devono tornare a essere oasi di condivisione creativa, fucine di professionalità, sedi di fruizione ben distinte, naturalmente concepite per prolungare l’esperienza musicale ben oltre il momento del live.

«SE LA MUSICA e i concerti vi mancano per davvero, non dimenticatevi mai di questa situazione al limite, e tenetene sempre vivo e insopprimibile il desiderio», hanno commentato i Marlene Kuntz. Al di qua dello schermo c’è sempre chi guarda il dito e non la luna, affidando al medesimo schermo vibranti proteste e accuse di «presa in giro per il pubblico». Ma in generale il messaggio ha colpito il bersaglio, scuotendo con forza gli animi di chi quegli spazi è abituato a viverli. Altro silenzio, invece, quello finora pervenuto dal Ministero della Cultura. Chissà se “negli ultimi tre anni” hanno assistito a un concerto, in via del Collegio Romano. Un altro punto interrogativo.