Andiamo un po’ indietro. Era il 1999, la Mostra del cinema di Venezia presenta un’opera prima eccentrica: The Protagonists, melò crudele che dell’arrogante universo maschile in cui si svolge denuda le pulsioni sentimentalmente più disturbanti. L’autore, Luca Guadagnino, qualche giorno fa in un’intervista parlando di quell’esordio lo definiva quasi imbarazzante. Si dice (uno per tutti Bertolucci che Guadagnino ama molto e al quale ha dedicato il doc Bertolucci on Bertolucci) che i registi non amino rivedere i loro film, eppure quell’ opera prima, ingenua come spesso accade, e forse pure un po’ presuntuosa, aveva la qualità della sfrontatezza e un amore per il cinema che Guadagnino ha mantenuto intatti nel tempo come l’ambizione internazionale che nella sua generazione (è nato nel 71) era scomparsa. Cinefilo raffinato (e mai sterile) anche quando gira un spot per il lusso, del resto il suo primissimo lavoro Qui, tempo reale di una fellatio (o senza troppi svolazzi di un pompino) fondava la sua giocosa potenza «scandalosa» non sul gesto in sé, ma sulla capacità di renderlo punto di vista, sguardo cinematografico.

 
È la cifra più provocatoria delle immagini/immaginari di Luca Guadagnino la sua fiducia incondizionata nelle immagini: sono queste che parlano, che raccontano, che disegnano le soglie su cui si muovono i suoi personaggi, le geografie dei luoghi, il movimento di uno spazio narrativo, i ritagli di realtà. Ciò non significa assenza di scrittura, al contrario lo script è millimetrato, solo che i film di Guadagnino della sceneggiatura non sono illustrazione,. Lo stesso vale per gli attori, coi quali il regista palermitano sembra cercare le sinergie del cinema classico, del postmoderno, un manierismo sontuoso che li rende corpi eloquenti, pieni di irriverenza, accarezzati, scrutati fino a tirarne fuori l’imprevisto.

 
Per questo solo un regista come Guadagnino poteva rendere The Bigger Splash il film che è, una miscela irriverente di desiderio e realtà senza dogmi né canoni né assoluti solo la tensione che socrre nell’occhio e nel cuore delle sue immagini. In gara alla scorsa Mostra di Venezia, ora in sala, ispirato a La Piscine di Jacques Deray, scompiglia l’originale del 1969, con Godard, i Rolling Stones, Simpathy for the Devil e One plus One, il rosselliniano Viaggio in Italia mai esibiti però, né sottolineati, piuttosto lasciati fluire nella feroce partita emozionale che si gioca fra i protagonisti. Tra cui ritroviamo Tilda Swinton, icona del regista e sua «storica» complice (come Walter Fasano col suo montaggio rock) sublime, che conferma la capacità oggi rara per gli attori di mettersi costantemente in gioco. Insieme a un terzetto altrettanto magnifico, a cominciare da Ralph Fiennes, e poi Dakota Johnson e Mathias Schoenaerts, e molti altri come Elena Bucci.

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Anche il soggetto cambia radicalmente: siamo a Pantelleria, Marianne Lane (Swinton) è una rock star momentaneamente afona che si è ritirata insieme all’amato Paul (Schoenaerts) in un dammuso tra cielo, mare e piscina per curarsi ma anche per reinventarsi stanca dell’icona di sé. Sull’isola arriva non desiderato Harry (Fiennes) il suo ex, produttore discografico di fama mondiale insieme alla giovanissima figlia (Johnson) esplicita citazione della Lolita kubrickiana, che appena indossa gli occhialetti a bordo piscina sappiamo perché è lì. Ma poco importa: la suspense cresce fuori dal plot, nella tensione sentimentale che taglia l’azzurro del cielo e del mare, che si confonde con le sciabolate di luce violenta, del caldo, del sole in cui Swinton incede coi suoi vestiti Dior. E la sfida della regia è spiazzarne le linee che coincidono con i sobbalzi emotivi dei personaggi, coi fantasmi del loro desiderio, con il corpo a corpo di una ostinazione, quella di Henry, che si aggrappa al suo amore passato, alla seduzione di un tempo di eccessi e tumulto che Marianne vuole abbandonare per sempre. Gli altri due però non sono solo spettatore, ma divengono prede e strumenti di reazioni, alleati e rivali in un balletto meccanico che li obbliga a cambiare continuamente ruolo.
È bellissima l’isola eppure dolorosa, il paesaggio si confonde con il cuore dei personaggi, ne diviene lo specchio, il riflesso: spaesamento della festa, angoscia di un tramonto solitario, inquietudine di ombre minacciose. E insieme accoglie qualcos’ altro: la realtà fuori dal quadrilatero della piscina, i migranti nascosti tra gli scogli che appaiono ai quattro all’ improvviso, scampati al mediterraneo, e che i protagonisti percepiscono come un rumore di fondo. Lo stesso che arriva dalla televisione accesa in una casa qualunque di Pantelleria, non è solo questione di classe ma di un rapporto col mondo e con la sua rappresentazione…
Se Io sono l’amore, il film precedente guardava l’alta borghesia milanese da una «soglia» – lo sguardo esterno del cuoco e quello interno di Swinton che a quel mondo era stata prestata, qui quel confine appare rovesciato: sulla soglia c’è il regista (e anche noi spettatori), pure se i personaggi li ama, e visceralmente, nonostante siano anche odiosi – alla fine il più simpatico, a me almeno, è l’insopportabile e strafattissimo Harry, sovraesposto nella sua fragilità fracassona e in un rimpianto che è anche (almeno un po’) quello della sua gioventù, di un tempo meno convenzionale e meno «bio».

 
Ma Guadagnino non si ferma qui. E dalla sua soglia realizza in quello che poteva essere soltanto l’elegante racconto di un mondo avulso un continuo controcampo col presente. Si può raccontare la realtà, il sentimento del contemporaneo, lasciandolo trasparire da superfici la cui apparenza è piatta? Dietro, sotto, da qualche parte scovarne una crepa: nella violenza di una relazione, e nella sua apparente indifferenza, si manifesta una realtà che appare tanto più evidente quando restituita da un contesto inusuale. I migranti, l’indifferenza, la fascinazione per i «famosi» ciò che nel dammuso mentale dei personaggi appare sfocato, assume forza, e una consistenza che interroga anche una rappresentzione della realtà che digerisce tutto.

 

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Seguendo l’ispirazione pop dell’opera di Hockney da cui il prende il titolo, Guadagnino realizza un film irriverente e molto libero, in cui ci dice che le geometrie pericolose del desiderio possono convivere, anzi spiegare, i meccanismi universali della nostra esistenza , e che lo spazio privatissimo degli scontri amorosi e del possesso, è quello del potere che regola le relazioni collettive, e allargando un po’ la lente il mondo. Ma non c’è nulla di dimostrativo, l’orizzonte del cinema in questo film è aperto e ognuno può prenderne qualcosa. Che meravigliosa sfida al nostro tempo.