Il Pardo disseminato un po’ ovunque nella cittadina sul lago, l’aria distratta delle vacanza, turisti e cinefili coi cordini maculati che si mischiano sotto ai portici, l’afa di un’estate nelle cronache meteo incoronata già come memorabile. Cambia poco sotto al cielo di Locarno, eppure il festival per i suoi settant’anni è riuscito finalmente a «regalarsi» un nuovo palazzo del cinema; per ora sono aperte solo due sale, sul piazzale davanti con bar e tavolini il sole picchia duro, dentro si sente l’odore di vernice ancora fresca. Una delle due è sold out alle due del pomeriggio (500 posti), fuori in molti non sono riusciti a entrare. Si proietta Per una rosa di Marco Bellocchio (ma il regista per ora qui non c’è), cortometraggio girato a Bobbio, all’interno della scuola che tiene da anni, tra i protagonisti ritroviamo la figlia, Elena, la cui presenza in Sorelle mai è una magnifica variazione sull’idea del tempo cinematografico restituito nei suoi cambiamenti da bimba a adolescente.

 

rosa

La storia è semplice, quasi un film da camera all’interno di un bar nel centro del paese in estate dove Elena inizia a lavorare come cameriera. La proprietaria è distrutta dal dolore per la morte del marito suicida, il barista, un ragazzo giovane, le sta vicino, forse un po’ innamorato, forse anche ricambiato….
Un uomo spera di avere una malattia grave che giustifichi la dimenticanza del compleanno di sua moglie, una donna lo consiglia con dolcezza, un ragazzo beve grappa per bilanciare la crisi di astinenza da eroina. Nel bar si parla d’amore, del dolore, della vita, delle sue possibili variazioni, come il ritornello di una ballata intorno a un mazzo di rose rosse. Poi la giornata finisce, si esce fuori da quello strano luogo, il fiume scorre, dentro gli amici di Elena la chiamano per tuffarsi insieme a loro.

Istanti, un dentro/fuori, un teatro che sconfina nel quotidiano e nelle sue infinite possibili variazioni. La folgorazione degli istanti che la macchina da presa del regista sa cogliere con precisione lasciandoli fluttuare nel loro essere per restituirne la dimensione impalpabile. La vita, sì, nei suoi piccoli e grandi detour che si fa cinema con semplicità e intuizione.

CHE FESTIVAL SARÀ, a parte le promesse «sulla carta» è ovviamente presto per dirlo, ma almeno una certezza c’è; come sempre la retrospettiva è affollatissima, la nuova sala del Rex – anche questo un cambiamento logistico per i settant’ anni – è frequentatissima per le imperdibili proiezioni della retrospettiva su Jacques Tourner – accompagnata da una monografia, edizioni Capricci.

I film sono delle vere e proprie scoperte specie per le nuove generazioni (ma non soltanto) come i corti che il regista ha girato negli anni trenta: umorismo, ironia, mondo animale, la danza del caso, l’invenzione in breve fulminea di un racconto.

Lo stesso non può dirsi di Lucky, il titolo americano del concorso, opera prima di John Carroll Lynch, omonimo di David che è invece nel cast (e anche molto presente come riferimento cinematografico), una sorta di compilazione dell’immaginario americano (cinema, pittura, l’immancabile bancone di Hopper, musica), ammiccante quanto basta per appoggiarsi interamente ai suoi attori.

Tutti magnifici a cominciare da Harry Dean Stanton, che esibisce fino alla commozione volto scavato, gambe magrissime, l’andatura incerta degli anni passati – il regista ha definito il film «una lettera d’amore a Stanton». È lui il Lucky del titolo, tipo stravagante e solitario, sessantottino coi suoi due pacchetti di sigarette al giorno e l’allergia alle regole – nel ’68 si fumava protesta con la proprietaria amica del bar dove passa insieme agli altri compagni di una vita, i pochi rimasti, interminabili serate. Si parla di realismo e di verità che è sempre diversa, secondo chi la racconta, di incontri che cambiano la vita, delle scelte di una tartaruga centenaria che si chiama President Roosevelt ed è scomparsa spezzando il cuore dell’amico umano (Lynch David) il quale si rassegnerà pensando che la tartaruga aveva pianificato la fuga da tempo nel deserto tra cactus altrettanto antichi.

UN FILM SULLA VECCHIAIA, sugli anni che vanno via, sulla morte e sulle relazioni ma anche un film sul paesaggio americano lungo il confine con la parte ispanica. E forse su una vita nascosta, sui desideri frustrati di Lucky che ha fatto la guerra in marina, ha scoperto troppo tardi Liberaci, guarda con ostentato fastidio i ragazzi baciarsi e chissà se anche lui avrebbe voluto…

Lynch, il regista, ci mette molto dei Coen con cui ha lavorato da attore in Fargo e in altri film, un po’ di rosso mistero alla Twin Peaks 1 nei sogni, mariachi di non so più chi: tutto è perfetto, orchestrato per piacere, battute e lacimuccia. Così al punto giusto da risultare indigesto.