Sulla balconata della Sala Predinastica, un luogo folle, uno stretto lunghissimo rettangolo dove si cammina tra teche che contengono reperti antichi modernissimi, sono schierati tutti e settanta gli strumentisti. Quattordici americani e inglesi, gli altri italiani. Le ance, gli ottoni, i contrabbassi emettono un suono tenuto, denso, cupo. È proprio il suono del mondo che chissà come annuncia la sua apparizione negli spazi infiniti sconosciuti? Ma, casomai, non è il big bang, è la preparazione, l’annuncio del big bang. Un suono-massa armonizzato per intervalli vicinissimi, siamo nel regno del quarto di tono, un pensiero al grande Ligeti lo si fa. Però è un suono terroso, se vuol essere primigenio sicuramente non ha nulla di celeste o di aereo.

 

 

Arrivano dopo un tempo che sembra interminabile le prime modificazioni della massa sonora, che si mantiene sempre sul grave. Sono minime, quasi impercettibili, come accade in tanta musica contemporanea, anche in quella elettronica, che gioca sul continuum e sugli spostamenti graduali. Il direttore-compositore muove dapprima solo la testa, lentamente. Poi inizia a dare indicazioni con movimenti assai composti, lievemente meccanici, del corpo. E loro, gli strumentisti protagonisti co-autori, eseguono (o inventano in assoluta indipendenza? non lo sappiamo) queste microvarianti tragicamente conoscitive della materia del suono. C’è qualcosa di tragico, infatti, negli accenti con cui tutti concorrono a disegnare questa pianura di suoni pietrosa e ricca. Non facciamoci tentare dall’interpretazione didascalica: il mondo che si sta generando non è forse tragicissimo, e noi bene lo sappiamo? Inutile tentazione.

 

 

 

 

Anthony Braxton inaugura il Torino Jazz Festival, una sei giorni concepita col criterio di inondare di musiche jazzistiche l’intera città. Il settantenne musicista di Chicago rinnova al Museo Egizio, insieme alla coreografa Rachel Bernsen, che ha un ruolo fondamentale, il suo Sonic Genome, una composizione che è una incredibile messa in scena musicale. Durerà otto ore, dalle sei del pomeriggio alle due di notte. Le varianti del grande suono-massa iniziale diventano più marcate. Crescendi o interventi solistici si fanno notare, il corpo della musica diventa più chiaramente «senza organi». Anche perché l’immane orchestra si divide. In sottogruppi, in ensemble variabili (ma ben pianificati di volta in volta nella loro costituzione). Che cominciano a defluire, ad allontanarsi, sempre suonando frammenti di musica estrema, radicale, post-seriale, informale, atonale, di marca inconfondibilmente braxtoniana. E la composizione-rappresentazione diventa itinerante, continuamente (ma ordinatamente) dislocata.

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Su che cosa lavorano, in termini strettamente musicali, di materiali sonori, i vari piccoli o meno piccoli gruppi che troviamo nei diversi punti cruciali del Museo? Sul continuum iniziale e, ancora più spesso, su una sorta di tema che l’organico ridotto rimasto per ultimo sulla balconata, diretto non solo da Braxton ma da vari discepoli (sono della partita il cornettista Taylor Ho Bynum, il sassofonista James Fei, il tastierista Alexander Hawkins, tra i più noti), intona e mette in circolo. Un motivo un po’ danzante un po’ di marcia, ma diventato una serie piuttosto severa, che ricorda il Braxton jazzistico degli anni ’70 con i suoi celebri quartetti. Ma prima di lasciare la postazione della balconata, forse sentita come generatrice in questo itinerario di suoni che vorrebbe ricercare l’origine genetica della musica, c’è tempo per un episodio di lirismo lancinante «alla Alban Berg» riservato a (o inventato da) tre contrabbassisti.

 

 

Si procede occhieggiando la statua di Iteti – notevole, non c’è che dire, e perché la vediamo/percepiamo come se fosse, mettiamo, un Giacometti? – per inseguire i vari gruppi genomici fuori da questa sala. La dislocazione degli interpreti è totale. L’autonomia nel comune si gioca ormai all’estremo, al punto limite della frammentazione e della dissociazione. Così sembra. Ma sull’orgoglio dei piccoli gruppi che inscenano episodi mirabili si stende sempre l’ombra del maestro, è con gli spunti che ha fornito che si improvvisano sequenze inaudite, ed è con la «cerebralità» delle sue scelte musicali recenti che si mantiene il contatto. Dall’alto del lucernario che incombe sulla tomba di Ini suona anche Braxton, al sopranino. E conduce, anzi condivide con un ensemble, un lungo momento di suoni come accennati, distratti, nascenti o perduti, incerti, provvisori. Colloqui nel ricercare.

 

 

A metà della scalinata tra il secondo piano e il primo un gruppo vocale coordinato da Kyoko Kitamura ci fa ascoltare qualcosa che sembra un mottetto, qualcosa che ha sapori di gregoriano e di minimal, qualcosa di ritmato, un sillabario sonoro, e il tono questa volta è sì vagamente celestiale. Nel corridoio davanti all’ingresso un quintetto fagotto-flauto-clarinetto basso-sax alto-contrabbasso con a capo la fagottista Sara Schoenbeck è davvero affascinante con la sua onda sonora microtonale. E l’assolo della flautista Carlotta Vettori è un prodigio di invenzione che avrebbe lasciato senza fiato il più arcigno Luciano Berio. Nel cortile del Museo si riunisce tutta l’orchestra, vocalisti compresi (e in primo piano). Si diffonde la «sinfonia concertante», azzardata, fluida, di Anthony Braxton. È avanguardia? Sì. Qui e ora.