La verità della storia e la verità della finzione si sovrappongono sin dai romanzi degli esordi di Mario Vargas Llosa, scrittore che ha spesso tessuto le trame del proprio universo narrativo attorno a personaggi controversi e eventi storici irrisolti, rivelandone gli aspetti reconditi, appunto, attraverso la lente di ingrandimento dell’invenzione. Romanzi memorabili come Conversazione nella cattedrale o La guerra della fine del mondo sono eccellenti esempi di cosa succede quando la scrittura si apre alle «verità delle menzogne», come lo stesso Vargas Llosa definì quel sapere sul mondo che solo la finzione può fornire: «la letteratura racconta la storia che la storia scritta dagli storici non sa, né può, raccontare». Un assunto centrale, questo, in tutto quel ricco filone della letteratura latinoamericana del Novecento a vocazione storica, consacrato alla riscrittura del passato dal punto di vista dei vinti.

Orchestrato dalla Cia
Da Alejo Carpentier a Gabriel García Márquez, in tanti hanno attinto all’archivio storico per ricavare fatti e documenti con cui congegnare contronarrazioni capaci di demistificare le versioni ufficiali. L’indagine di Vargas Llosa sulla storia ha privilegiato quegli episodi in cui appare più evidente la natura violenta e corruttrice del potere, e così accade anche nel suo ultimo romanzo, Tempi duri (convincente traduzione di Federica Niola, Einaudi, pp. 316, € 20,00), dove torna a occuparsi del Centroamerica, dopo che nella Festa del Caprone aveva ricostruito la vicenda del feroce caudillo dominicano Leónidas Trujillo.

Le pagine di Tempi duri affrontano vicende e retroscena di un evento cruciale nel destino del Guatemala e dell’America Latina: il colpo di stato orchestrato dalla Cia nel 1954 con l’appoggio delle élites locali per rovesciare il presidente eletto Jacobo Árbenz Guzmán e salvaguardare gli interessi economici della United Fruit Company.
«Il Polpo», come quella mastodontica azienda era soprannominata per via delle tentacolari ingerenze nella politica dei paesi centroamericani, ancora nel 1950 possedeva circa il 70% del territorio guatemalteco e non pagava imposte allo stato.

Non sorprende, perciò, che la democratizzazione intrapresa nel 1944 con la cosiddetta Rivoluzione d’Ottobre e l’assegnazione della terra ai lavoratori, prevista dalla riforma agraria che Árbenz avviò nel 1952, risultassero assai pericolose per gli interessi della United Fruit, i cui principali azionisti erano i fratelli John Foster e Allen Dulles, rispettivamente Segretario di Stato di Eisenhower e capo della Cia.

Il romanzo si concentra sul pernicioso intreccio tra potere economico, potere politico e caudillismo, offrendone un ritratto al contempo fosco e vivido; ma più impressionante, nell’economia della ricostruzione storica – anche per la sua estrema aderenza all’attualità – è la descrizione della strategia con cui il golpe venne allestito, mescolando sapientemente soft power e hard power, guerra psicologica e guerra armata.

Si deve a Edward L. Bernays, all’epoca consulente pubblicitario della United Fruit, l’intuizione di erodere il consenso intorno al nemico attraverso una campagna mediatica, il cui scopo era indurre l’opinione pubblica a fare pressione sul governo perché Árbenz venisse destituito a favore del neo-designato presidente Carlos Castillo Armas. La fake news perfetta – erano tempi di guerra fredda – non poteva che riguardare la penetrazione in Guatemala dei «rossi comunisti» per intervento di Árbenz (che invece comunista non fu mai, come Vargas Llosa non si stanca di ripetere). Costruita a tavolino, diffusa e amplificata dalla propaganda della stampa nazionale e internazionale, quella menzogna era sufficiente a giustificare la violazione di uno stato di diritto e sacrificare la pace di un paese.

Vargas Llosa riferisce con dovizia di particolari date, luoghi, dettagli, adottando a tratti la neutralità del registro storiografico e optando per una narrazione serrata che poco concede agli abbellimenti della finzione, quasi obbedisse all’urgenza di riportare puntualmente quanto è emerso dagli anni di ricerca tra le biblioteche del Guatemala e gli archivi governativi statunitensi: scrupolosissima, ad esempio, la descrizione dei bombardamenti aerei del Forte Matamoros, che preludono alla resa di Árbenz.

Fin qui, dunque, la Storia, nella cui organizzazione narrativa traspaiono, com’è ovvio, la voce e il giudizio politico dell’uomo Vargas Llosa, che nella suggestiva chiusura, dove ci riconduce al presente, non smentisce il suo già noto anti-comunismo: «A conti fatti, l’intervento nordamericano in Guatemala ha ritardato di decenni la democratizzazione del continente ed è costato migliaia di morti, perché ha contribuito a diffondere il mito della rivoluzione armata e il socialismo in tutta l’America Latina. Giovani di almeno tre generazioni hanno ucciso e si sono fatti uccidere per un altro sogno impossibile, ancor più radicale e tragico rispetto a quello di Jacobo Árbenz». Nella loro laconica perentorietà, le conclusioni di Vargas Llosa sono sbrigative e semplificanti una stagione politica latinoamericana complessa e decisiva. Ma sono le verità della finzione a rapire il lettore: non è tanto la disposizione dell’intreccio a rivelarle – la narrazione non lineare non sembra questa volta funzionale a modulare l’informazione per creare suspense – e neppure l’alternanza dei punti di vista, ben più pronunciata e riuscita in altri romanzi del passato.

Fantastiche distorsioni
Dirimente è, piuttosto, l’introspezione che guida il racconto di personaggi iperbolici dai destini ancora misteriosi, quasi al limite tra la fantasia e la realtà benché davvero esistiti, come Johnny Abbes García, capo dei Servizi Segreti di Trujillo, torturatore efferato, (forse) trucidato ad Haiti insieme alla moglie e alle figliolette per aver cospirato contro la famiglia di Papa Doc; o Marta Borrero Parra, la Miss Guatemala dai magnetici occhi grigioverdi stuprata in giovanissima età da un medico comunista, divenuta poi amante di Castillo Armas e coinvolta (forse) nel suo assassinio, accompagnatrice di Abbes García e giornalista vicina al Generalísimo Trujillo, oggi cittadina statunitense, custode degli inenarrati retroscena di quegli anni convulsi.

L’approdo non è dunque alla verità della storia, perché essa è, alla fin fine – scrive Vargas Llosa – «una distorsione fantastica della realtà»; ciò che reclama piuttosto i propri diritti è la verità romanzesca, intrisa di una critica capace di illuminare la natura umana anche quando ne raffiguri «un’idea molto misera», come avviene per i protagonisti delle vicende che hanno inaugurato decenni di sanguinose guerre civili, nella loro neppure troppo romanzesca mostruosità.