Viaggiatori curiosi, e però stanchi dei non luoghi che Marc Augé aveva identificato come tipici della surmodernità, viaggiatori che coltivano il gusto del senso critico e sospettano dei luoghi che si presentano come nuovi reliquiari laici della Grande Cultura o della Dea Natura, si avvantaggeranno della immersione vorticosa proposta da Paulo Barone in Benares Atlante del XXI secolo (Nottetempo, pp. 328, € 24,00) dove vengono evocate quelle immagini del mondo che hanno la strana proprietà di alludere a quanto c’è di più intenso e personale nell’esperienza.

Il libro realizza quel che promette: ampliare le visioni di Benares, e poi miniaturizzarle, scavarle, infilarle come perline di una collana che in ogni riflesso lasci un frammento, un’allusione, una goccia, il residuo subito evanescente di una esperienza che, da tempo, è la nostra – anche se il coraggio di osservarla nel suo decomporsi caotico non ha riscontro nei luoghi comuni del commercio comunicativo. Per questo la carta di Benares è l’Atlante del XXI secolo.

Alcune parole chiave sono appunto residuo, goccia, evanescenza (residuo, goccia e frammento ricorrono anche nei titoli dei capitoli). Da un capo all’altro del libro, ci si può sintonizzare su risonanze, concordanze, subatomiche particole che ritornano come a guidarci attraverso suoni sussurrati e figure sfrangiate: la pianta segreta di Benares porta in sé «un carico aereo di particelle di vapore, come fosse una pioggia fitta e minuta durante un temporale». Di questa foschia leggera si nutre l’effetto iridescente che avvolge il libro-mappa. Temi ricorrenti nel pensiero di Paulo Barone – la polvere, i resti, la geografia dell’infinitamente vicino – erano già presenti nei titoli dei suoi libri precedenti. Benares ne è la concertazione.

Tempo accelerato, spazio contratto
Le antiche carte (alcune bellissime riproduzioni fanno da appendice al testo) affascinano con la promessa di ridarci il passato storico della città: Il pellegrinaggio, Lo specchio, La Guida alle sette città sacre che si trovano in Kasi, erano certo viatici per i pellegrini, tuttavia la loro vaghezza tradisce il fatto che «la città cui si riferiscono era andata distrutta. Il tratto irrealistico delle mappe di Benares portava impresso anche il segno della sua distruzione, rifletteva il poco che ne era rimasto, faceva i conti con le briciole che ne avanzavano, tanto che un piccolo cerchio mandalico bastava a contenerle (…) mostravano quello che in realtà, non si vedeva».

Le tre immagini-tipo sono quelle della città cosmica che include l’universo nel cerchio simbolico del mandala, quella della città passaggio-soglia tra due dimensioni e infine la città sospesa in cima al tridente di Shiva. Sarebbero estranee alla «realtà evanescente» della città; neppure sarebbero vere immagini di Benares quelle troppo vicine, concrete, immagini di «qualcosa». A definirle è invece «il loro tenore intermedio, il loro infinitesimo intervallo mediano posto tra sacro e profano (…) l’aldilà delle immagini è trattenuto, evocato nelle immagini stesse; le immagini sono tutto ciò che c’è da vedere, la sola traccia rimasta». Un residuo, appunto, che rivela il senso della foschia di Benares, quella materiale è solo occasione contingente, «la foschia imaginale è invece permanente. Chi pretendesse un’immagine chiara e nitida – una cartolina o una foto ricordo – della città rimarrà deluso, perché in questo senso Benares non ha alcuna immagine (le incenerisce tutte). Eppure, proprio in grazia alla sua doppia veste di città delle immagini e città senza immagine, Benares sembra situarsi al centro dell’epoca odierna, un’epoca, appunto, senza immagine, composta solo di immagini. Nel pieno del Kali Yuga, dell’età oscura, essa andrebbe denominata la Capitale del XXI secolo». L’accelerazione del tempo e la contrazione dello spazio verrebbe da dire, condensando le caratteristiche fenomenologiche distintive della postmodernità, o del capitalismo globale, assolutizzano il qui e ora dell’attimo fuggente, lo celebrano enfatizzandolo e polverizzandone durata ed estensione, lasciandone una traccia subito svanita.

Non si tratterebbe, nella visione di questo libro, di una negatività senza riscatto. Anzi, su questo tempo-morto, analogo al corpo-morto, si compone il rito di passaggio che suggerisce una sospensione, un momento di transito a suo modo immobile, senza spiegazione che lo risolva nel suo prima e nel suo dopo. Si può sollevare, da questa nuda presenza, dal puro fatto di esistere, un «pulviscolo benefico di vapore sottile», la nuvola del dharma, l’insegnamento e l’esercizio che conducono, attraverso la disciplina del respiro, al samadhi, punto paradossale privo di ogni supporto, libero dalla coscienza intenzionale. Ma i residui, inconsciamente pieni di vissuto e di pensiero, devono ancora essere bruciati nel fuoco mentale, prima che il luccicore infinitesimale ne lasci trasparire «il tratto irripetibile, unico», l’incomparabile della sfumatura, liberato dalla coazione a transitare di nuovo, a ripetersi. Benares come viaggio meditante, dove la panoramica della città è l’altra faccia di un simbolo che, nel suo rovescio, dice «il soggiorno del mondo – e del mondo di ciascuno – nel tempo-morto di Benares» che consiste, innanzitutto, nel «prendere possesso della propria singolarità, nel punto più estremo e più intenso».
Un tempo, il nostro, che non può andare oltre «il minuscolo residuo temporale in cui compare», il momento in cui il nostro presente è già passato. Il mondo in residui è «accatastato come una gigantesca discarica», «come dimostra l’immensa colte di avanzi, scorie, rottami e rifiuti da cui il mondo è sommerso».

Da Jung a Skriabin
Questo potenziale rivelativo è rimasto per lo più ignoto, o solo intuito, da molti viaggiatori che hanno visitato Benares ma non l’hanno «vista», o da altri che l’hanno fantasticata senza raggiungerla. Tra loro, Jung e Gozzano, Walser e Brâncusi, Skriabin e Guenon. Chi si avvicina a cogliere il rovescio dell’annichilimento, in una sorta di astuto specchio che vanifica le sembianze del nichilismo, è l’ultimo dei viaggiatori di Barone e, come si capisce nelle pagine finali, il suo amico e iniziatore alla sapienza dell’induismo: Raimon Panikkar. Per lui la manifestazione dell’Essere si dispiega in un modo che il pensiero non può raggiungere, che viene perduta, alla quale però può accedere la meditazione senza oggetti, senza soggetto e senza immagini.

La chiusa del libro rievoca, dunque, il commiato silenzioso alle ceneri di Panikkar:«In quel momento anche R. P. rientrava nell’Atlante del Mondo, su quella Carta segnata per ora da un semplice cerchietto, da un piccolo mandala vuoto, il posto in cui noi tutti ci troviamo».