Al termine della prima giornata del girone di ritorno i calciatori partono per le vacanze, ne hanno diritto, al di là dei guadagni sono lavoratori subordinati. Piuttosto, sarebbe il caso di organizzare meglio la pausa: ottima l’idea di giocare durante le feste, senza senso quella di fermarsi ora. Così, mentre si tirano le somme della prima parte di un campionato partito con aspirazioni democratiche e presto trasformatosi nella diarchia di Juve e Napoli, si cerca di occupare il tempo della sosta discutendo il Var. Il pretesto è la partita di Cagliari, dove l’arbitro si è bellamente rifiutato di vedere le immagini per non dovere prendere decisioni contro i bianconeri. Apriti cielo. Si è scoperto che il Var non è la moviola in campo: è soggetto alla discrezione dell’umano, quindi può aiutare ma non è perfetto, può migliorare l’equilibrio di ma non porta la giustizia divina. In attesa di lavoro zero, reddito intero e di tutta la produzione all’automazione, il Var è infatti manovrato da una classe arbitrale fin troppo umana, che da sempre favorisce le grandi. E per questo non bisognava aspettare gli episodi, clamorosi, a favore della Juve. Omnia munda mundis.

Anche Napoli e Roma, per dire, ne hanno giovato. Ma a differenza dei partenopei la Roma, come l’Inter, è crollata quando ha cominciato a mostrare limiti nella capacità di variare il sistema di gioco e, di conseguenza, di andare a rete. Gli avversari hanno preso le contromisure. Vanno invece alla grandissima Lazio e Atalanta, ma per gli stessi motivi per cui il Var non sarà mai giusto, difficilmente i bergamaschi finiranno nei primi quattro posti, lì dove si va in Champions. A meno che non accada una impensabile rivoluzione nel governo del calcio, quando il 29 gennaio si sceglierà il nuovo presidente federale. Come in politica, anche nel pallone a contendersi le poltrone sono candidati – vedi Gravina (presidente Lega Pro) e Sibilia (Dilettanti) – che pur provando a rivendersi come novità riformiste sono responsabili della disastrosa situazione attuale, tanto quanto il bistrattato Tavecchio.

E non è certo una novità Damiano Tommasi, il Don Abbondio della politica sportiva non ha mai voluto schierarsi su posizioni di rottura, anzi, e la sua candidatura «social» è una stanca riedizione del primo populismo grillino. Intanto la Lega di Serie A, sempre commissariata, lancia il bando per le tv: si parte da 570 milioni, cifra molto bassa, lontana dagli altri campionati europei. Per questo il calciomercato, che all’estero vede già i primi grandi colpi, non interesserà le nostre latitudini. E se il girone di ritorno confermerà la diarchia attuale, e non si ridurrà alla dittatura bianconera degli ultimi sei anni, sarà già un successo. Finché la politica del calcio è questa, la nuova legge sui diritti tv non si scosta infatti dalla derelitta Legge Melandri che li regolava in senso antidemocratico, creando quella sperequazione che appiattisce la competitività e impedisce ogni possibile novità, un Leicester italiano, con tutte le sue contraddizioni, non lo vedremo mai. Var o non Var.