In Francia la parola divenne di senso comune nel secondo dopoguerra con il romanzo L’Europe buissonnière, esordio di Antoine Blondin, il perdigiorno per antonomasia, ma chi la mutò in un termine tecnico e anzi nella etichetta letteraria per cui «buissonnière» è sinonimo di letteratura «anticonformista», «scanzonata» e sottotraccia «destrorsa», fu un critico letterario che non era di nazionalità francese ma di origine vallone, Pol Vandromme (1927-2009), il quale amava autodefinirsi «belga di passaggio e provinciale di Parigi».
Il suo nome è legato a una genealogia che muove da Charles Maurras, prosegue con i Rebatet, Brasillach, Montherlant, Marcel Aymé, Roger Nimier e gli altri «Ussari» come Blondin fino agli albi di Tintin e alle partiture di Georges Brassens e Jacques Brel dalla cui canzone più etnografica, Le plat pays, aveva tratto l’oroscopo dedicando ai suoi autori agili monografie (in realtà dei ritratti a memoria, cerimonie del ricordo) con un riguardo particolare a chi svetta sugli altri nella sua panoramica, quel Louis-Ferdinand Céline (Italia Storica, pp. 172, € 16,00) che ora torna in libreria per la cura di un provetto cultore della materia, Andrea Lombardi. Il libro è datato, perché risale al 1963 e uscì da Borla nella versione di Alfredo Cattabiani l’anno dopo, però mantiene non soltanto la freschezza di uno stile rapido e ficcante (Vandromme era stendhaliano per la vita) ma anche la barra d’appoggio di una distinzione capitale, non sempre e non a tutti chiara, tra il grande artista firmatario del Viaggio al termine della notte e il pornografo di Bagatelle per un massacro.
Vandromme scrive appena due anni dopo la morte di Céline, in un’epoca di duro interdetto, e a quanti pensano che solo un pessimo scrittore può scrivere libelli tanto infami o al contrario che tali infamità sono redente perché pronunciate da uno scrittore tanto grande, egli propone di trasformare gli anatemi o le apologie dell’aut-aut negli atti distintivi, e dunque critici, dell’et-et. Pur dichiarando l’ammirazione, Vandromme non è affatto l’apologeta Robert Poulet (cui si devono gli Entretiens familiers registrati nell’arca di Meudon) né uno specialista del rango di Henri Godard, e oltretutto quando scrive la filologia céliniana è ferma all’anno zero, non è ancora uscito Rigodon (’69) né è dragato l’invaso fluviale dei testi dispersi e dell’epistolario. Piuttosto, Vandromme è un mediatore che si rivolge direttamente ai lettori, e specie ai giovani, additando quell’opera confitta nel buio più profondo del Novecento: «I romanzi raccontano la paura, i pamphlet tentano di distruggerla. Ma gli uni e gli altri vivono nella stessa atmosfera, con gli stessi personaggi, nella stessa angoscia monotona. Sono la stessa faccia di un mondo perseguitato. Questa faccia aspra di montagna inaccessibile dà a Céline un senso di vertigine, ma nel romanziere è la vertigine del baratro, nel polemista è la vertigine dell’altitudine. La polemica per lui non è altro che un attacco violento contro la paura».
Diversa ovviamente la musica che proviene da un’altra monografia di quegli anni, Pierre Drieu La Rochelle (traduzione di Alfredo Cattabiani, Oaks editrice, pp. 160, € 15,00), riproposta in anastatica con una nota introduttiva di Armando Torno. Tanto inferiore nella statura rispetto a Céline, molto più ideologico e politicamente engagé (da ultimo nel PPF, il partitucolo fascista di Jacques Doriot, di cui scrisse una biografia encomiastica che gli valse fra l’altro la direzione della N. R. F. ormai nazificata), talento dispersivo e molto diseguale negli esiti letterari, Drieu ha vissuto fino in fondo la tragedia secolare dell’estetismo e ha scontato le annesse ipoteche dell’immoralismo, ma nel suo magma bibliografico brillano almeno due piccoli capolavori ed entrambi, necessariamente, di chiara proiezione autobiografica: e non per caso l’uno è la storia di un suicida, Fuoco fatuo (dal quale nel 1963 l’omonimo e bellissimo film di Louis Malle), l’altro pubblicato postumo, Racconto segreto, è il referto che prepara cavillosamente il suicidio dell’autore medesimo.
Qui il critico mostra una più fredda passione per il proprio referente, la materia è più circoscritta e malleabile, non si annunciano al presente inediti di rilievo se non la cruda documentazione infine contenuta nel Diario 1939-1945 (il Mulino 1995) e perciò la conclusione è irenica: «I giovani che oggi cominciano a leggere rimangono passionalmente indifferenti alle nozioni di petainismo, di collaborazionismo e resistenza (…) potranno aprire certi libri di Drieu con una curiosità serena per chiedersi come e perché un grande spirito come lui sia stato distrutto dalle guerre civili. Non gli chiederanno i conti ma i motivi». Prima che indulgenza, Vandromme mostra qui un ottimismo che verrà presto smentito dai fatti del maggio 1968, le cui vicende sentirà tuttavia affini se non altro per la quota buissonnière del costume che esse verranno imponendo. Per parte sua Pol Vandromme resta un cosmopolita che non si muove mai, se non per le sortite a Parigi, dalla nativa Charleroi nel cui quotidiano di orientamento cristiano-sociale, Le Rappel, lavora da redattore e poi da editorialista. La sua bibliografia è ricca di titoli a decine, tra i contributi monografici, i libelli polemici (uno particolarmente acuminato è contro il grande amico di Drieu, Malraux, du farfelu au mirobolant), le memorie autobiografiche e i saggi fra i quali appunto La droite buissonnière del 1960. Quando vinse nel 1982 il premio speciale della Académie Française, nella motivazione veniva rammentata l’immagine di «spadaccino delle lettere» come di creatore di metafore nette, pungenti, e ne andrebbe richiamata se non altro una tra le sue più celebri, quella che battezza Simenon «maggior romanziere russo di lingua francese» ipso facto mostrandolo come il Tolstoj della piccola borghesia continentale quale in effetti, lo sappiamo ora più di allora, egli fu. Fa dunque torto alla sua misura di scrittore e di originale stilista l’appellativo di Monsieur Jadis (più o meno «Il Signor C’era una volta» della critica) che corre da tempo nell’ambiente in cui pure si è formato e ha lavorato. Non certamente a Parigi, sua patria elettiva, dove abitavano peraltro i suoi più cari compagni di via. In Italia, a parte le monografie adesso riproposte, non si è pubblicato altro di suo ed è un autentico peccato che uno dei suoi libri più belli, di certo il più teso e dolente, sia rimasto per così dire nel non-essere: già alle ultime bozze, a cura di chi scrive e con una stupenda copertina a firma di Enzo Cucchi, Le gradinate dell’Heysel, già annunciato da Luca Sossella editore nell’estate del 2012, purtroppo è un libro che non è mai andato in stampa.
Quando Vandromme è morto, nel blog Le petit célinien (n. 311, settembre 2009) qualcuno ha ricordato il fatto che viveva in pratica con i suoi corrispondenti per telefono o per lettera, che era una miniera di aneddoti e di ricordi d’anteguerra, che infine amava rievocare il paradosso di un suo caro amico, lo scrittore ed editore Dominique De Roux, secondo cui esistono soltanto tre categorie di critici, quelli che non sanno leggere, quelli che non sanno scrivere e quelli che non sanno né leggere né scrivere. Ovvio che Pol Vandromme apparteneva alla quarta, cioè quella di coloro che sanno leggere e scrivere sul serio.