Nel 1963 Norman Rockwell propose al «Saturday Evening Post» l’immagine nota come Marriage Counselor, il quadretto di una coppia, rigida per l’imbarazzo, in attesa di fronte allo studio di un terapista: la ragione dell’appuntamento è tradita dal dettaglio di un occhio nero sul volto del marito, certo la conseguenza di una baruffa casalinga costatagli l’ira della consorte. L’illustrazione venne rifiutata dalla rivista e non fu accolta, più tardi, nemmeno dal «Ladies Home Journal», quando se ne ripropose la pubblicazione nel 1972. Tuttavia, a ben guardare il dipinto (un serrato gioco di ortogonali e piani susseguenti), non stupisce che il pittore vi fosse affezionato. Sotto al travestimento della scena di genere ‘moralizzata’, sembra infatti nascondersi una dichiarazione di intenti: sullo scaffale alle spalle degli sposi, si riconoscono un tomo dedicato a Giovanni Bellini (forse a firma di Goldscheider, stampato nel 1945) e l’edizione Phaidon Press di un libro su Jan van Eyck, probabilmente quello scritto nel 1952 da Ludwig Baldass.
L’accostamento è da manuale, nel tracciare – per via di prossimità biblioteconomica – il dialogo fra la figurazione del Rinascimento veneziano e quella del Quattrocento nordico: nondimeno, Rockwell traspone l’intensità di un simile colloquio su un piano squisitamente stilistico, nella passione minuziosa per il particolare che costruisce l’interno, lindo e sanitario, secondo una sigla del suo linguaggio.
D’altronde non si può non ricordare come, appena pochi anni prima e cioè nel 1954, un capolavoro attribuito all’artista fiammingo, la Madonna col Bambino, Santa Barbara e Sant’Elisabetta (assieme alla figura di un donatore), fosse giunto negli Stati Uniti per interessamento di Helen Clay Frick, entrando nella raccolta fondata dal padre nel cuore di Manhattan. Si trattava di una testimonianza assai ricercata della pittura settentrionale, ricondotta da Panofsky – sebbene erroneamente – a una rara collaborazione fra Van Eyck e Petrus Christus (nello studio seminale Early Netherlandish Painting del 1953) e quarta fra le grandi creazioni associate alla mano del più anziano maestro allora presenti al di là dell’Oceano, dopo gli acquisti perfezionati da John G. Johnson, Andrew W. Mellon e Bryson Burroughs. La coincidenza è significativa, anche in relazione a Marriage Counselor, perché la tavola raggiungeva nell’elegante residenza sulla quinta proprio l’imponente San Francesco nel deserto di Bellini, una delle manifestazioni più analitiche della luce lagunare riverberate fra Otto e Novecento sulle sponde dell’Hudson.
Per questo il dipinto di Rockwell riviene alla mente oggi che la Frick sceglie di celebrare con una mostra preziosa, per cura di Emma Capron, nient’altro che il suo raro gioiello eyckiano; tanto più che l’esposizione – The Charterhouse of Bruges: Jan van Eyck, Petrus Christus, and Jan Vos, fino al 13 gennaio in una piccola sala d’affaccio sull’Entrance Hall della palazzina Beaux-Arts – richiama per analogia, perfino nello scorcio sull’intimo ambiente offerto dall’angusta porta d’ingresso, la veduta audace adottata dalla composizione del pittore statunitense, morto nel 1978.
D’altra parte nel bel catalogo la stessa Capron sintetizza il lento affermarsi, lungo la prima metà del secolo passato, di un gusto per i ‘fiamminghi’ fra le preferenze mercantili dell’aristocrazia finanziaria americana; e ispirata da un racconto di Henry James, Madame de Mauves, insolitamente distratto dai soleggiati fondi oro fiorentini o dai cieli carichi dell’orizzonte veneziano, segnala la perfetta sincronia di certe sperimentazioni del precisionismo East Coast, dei singolari manierismi cari al regionalismo d’après Grant Wood con la crescente attenzione – nelle capitali colte del paese, da Philadelphia a Washington – rivolta ai prodotti delle botteghe di Van Eyck, Van der Weyden o dei loro seguaci, attive fra Bruges e Bruxelles.
Impugnate le lenti messe a disposizione dei visitatori, la mostra invita dunque ad attardarsi sulle opere convocate alla Frick, dedicando a ciascuna il tempo necessario per l’esame zelante, per un’indagine di universi in miniatura capace di replicare – nel passo lento della fruizione curiosa – la ritmica, altrettanto pausata, della pratica devota, cui ogni oggetto appare legato ab origine, per tema così come per funzione. Rilievi mariani, grani intagliati per la preghiera, piccole ancone ‘da camera’, figurine di priants introducono alla tavola della Frick, di formato più ampio, nella ricostruzione di un tesoro ‘privato’, disposto – grazie al severo allestimento – in uno spazio scelto per evocare l’esigua intimità di una cella claustrale. Non a caso, i materiali richiesti per New York vogliono offrire un’idea, la più filologica possibile, delle gioie terrene già in possesso del monaco Jan Vos, raffigurato ai piedi della Santa Barbara nel dipinto al centro dell’esposizione: un membro di spicco della comunità residente nella certosa di Val-de-Grâce presso Bruges (Genadedal nell’altra lingua di quelle terre), distrutta dalle guerre di religione alla fine del Cinquecento, il quale nel 1441 fu eletto priore del cenobio, esercitando la carica per circa un decennio. Grazie a indizi documentari resi noti da Hendrick Scholtens e arricchiti per l’occasione da nuove notizie d’archivio, siamo infatti informati sulle passioni artistiche di questo certosino, in contatto con la corte ducale di Borgogna, il quale dedicò una cura particolare alla propria galleria di immagini, legando a esse una serie cospicua di indulgenze, utili a favorire la salvezza celeste dei suoi confratelli e la salute eterna della propria anima (secondo una tendenza non estranea alle scelte suntuarie dell’ordine). Seguendo una simile prospettiva critica, l’esposizione ottiene uno dei risultati più efficaci, affiancando appunto manufatti diversi che – accomunati dall’incantevole artigianalità della fattura – risultano però nettamente distinti nelle funzioni specifiche a essi attribuibili. Ci si accorge da subito, ad esempio, di come la disomogeneità di scala non possa che comportare destinazioni disparate per le opere in mostra; e in questo senso convince la risposta, formulata dalla Capron, la quale vede nella tavola Frick uno dei ‘memoriali’ pittorici diffusi in epoca moderna nelle chiese di Fiandra, fra coro e navate (stando a un’indagine recente di Douglas Brine). Persuade inoltre – grazie anche al ricorso a un bel foglio proveniente dall’Albertina – la distinzione delle mani fra il dipinto acquistato dalla collezione newyorkese (certo ‘disegnato’ da Van Eyck) e la cosiddetta Madonna Exeter (da Berlino), questa sì accostabile alla maniera di Christus: rilevanti in una simile direzione sono le indagini, illustrate in catalogo da Maryan A. Ainsworth (curatrice di pittura europea al Metropolitan Museum); e significativa è l’attitudine più generale che tale circostanza assegna a Vos, attento per l’appunto a coinvolgere col proprio mecenatismo due fra i nomi più in vista nella comunità artistica cittadina.
Oltre a queste rimarchevoli acquisizioni, la mostra conta del resto fra i suoi meriti un altro successo, più una qualità lirica che il prodotto di una scrupolosa connoisseurship. All’uscita, sembra infatti di sentir risuonare nelle orecchie – mentre negli occhi è ancora impresso il volto anziano e un po’ cadente di Voss, la sua attitudine composta, austera – le parole rivolte in una raccolta del ’77 dal laureato Robert Lowell ai coniugi Arnolfini (e allo stesso Van Eyck): “they wait and pray,/ as if the airs of heaven/that blew on them/ were now a common visitation,/ not a miracle of lighting/ for the photographer’s sacramental instant».