È una giornata difficile da dimenticare quella che ha visto ieri protagonista, in negativo, la premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi cui ogni giorno qualcuno chiude la porta in faccia. E ieri la porta in faccia gliela hanno chiusa un primo ministro, un Alto commissariato Onu e Amnesty International. Proprio la più famosa organizzazione di difesa dei diritti umani e della libertà di espressione – che per anni ha battagliato per farla uscire dagli arresti domiciliari – ha deciso di revocarle il premio «Ambasciatore della coscienza», conferitole nel 2009.

LA DECISIONE è stata presa alla luce – spiega un comunicato della sezione italiana – «del suo vergognoso tradimento dei valori per i quali una volta si era battuta». «Come Ambasciatrice della coscienza ci aspettavamo da Lei che continuasse a usare la sua autorità morale per prendere posizione contro le ingiustizie ovunque le scorgesse, a iniziare dal Suo paese. Oggi – sostiene il segretario generale Kumi Naidoo – proviamo profondo sconcerto per il fatto che Lei non rappresenti più un simbolo di coraggio, di speranza e di imperitura difesa dei diritti umani. Amnesty International non può più valutare il Suo comportamento come coerente al riconoscimento assegnatole ed è pertanto con grande tristezza che ci accingiamo a revocarlo».

IN SOSTANZA AMNESTY le rimprovera il fatto che, a metà del suo mandato e otto anni dopo la fine degli arresti domiciliari, la Nobel non abbia usato la sua autorità politica e morale per salvaguardare i diritti umani, la giustizia, l’uguaglianza e la libertà di espressione in Myanmar. Il riferimento ovvio è sia alla questione delle minoranze, tra cui quella musulmana dei Rohingya, espulsi in massa nell’agosto scorso in Bangladesh, sia all’arresto e alla condanna di due reporter locali della Reuters, attirati in una trappola dai militari per impedire loro di divulgare le notizie relative agli eccidi commessi dall’esercito contro i Rohingya. Nello stesso giorno in cui Amnesty decide di levare il riconoscimento – seguendo una strada già intrapresa da altri ma non ancora dal Comitato dei Nobel – la de facto premier birmana riceve un altro schiaffo politico da un suo omologo nel Sudest asiatico. Si tratta di Mahathir Mohamad, l’inossidabile protagonista della vita politica malaysiana tornato a essere nuovamente primo ministro all’età di 93 anni.

Ieri i due si sono visti alla 33esima sessione dell’Asean Summit a Singapore. Mahathir ha scelto quella platea (che riunisce la maggior parte dei Paesi dell’area) per dire come la pensa. Rispondendo a una domanda sulla questione rohingya il vecchio politico malese ha detto che Suu Kyi starebbe «cercando di difendere l’indifendibile».

Fu del resto il suo predecessore, Najib Razak, il primo a usare la parola «genocidio». L’Asean ha una tradizione di «non ingerenza» negli affari interni dei partner ma questa volta sta facendo pressioni perché si faccia luce sulle responsabilità degli eccidi commessi nel Rakhine, il territorio della paura da cui i Rohingya sono stati espulsi ma dove hanno paura di tornare.

CHE NON POSSANO TORNARE perché non ci sono le condizioni di sicurezza adeguate per un rimpatrio sicuro lo ha detto ieri l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani Michelle Bachelet, che ha chiesto al Bangladesh di sospendere i piani per il rimpatrio di oltre 2.200 rifugiati rohingya: rimpatri che violerebbero il diritto internazionale per i rischi che correrebbero i rimpatriati che infatti temono per la loro incolumità se dovessero ora far ritorno nel Myanmar.