Ci sono luoghi chiamati con nomi suggestivi. C’era la Campania felix, trasformata nella Terra dei fuochi. E c’era – molto più a nord – un giardino nato dalle terre di bonifica, strappato alle paludi, sul confine tra le province di Roma e Latina. “Valle d’oro” è il toponimo indicato sulle mappe. Forse un migliaio di ettari: insalata, pomodori, uva da tavola, venduta in tutta l’Italia. Ma soprattutto il kiwi dop, frutto trapiantato qui dalla Nuova Zelanda trent’anni fa. D’oro, perché l’agricoltura, da queste parti, era la vera miniera dei coloni veneti arrivati negli anni trenta per prosciugare questa terra, ararla e trasformarla nel granaio del paese.
Al confine est della valle c’è dagli anni ’80 una macchia grigia. Prima piccola, appena visibile. Poi un mostro da 50 ettari, un tumore che si allarga sulla terra, lambendo i confini del fiume Astura. Ha le sue tossine, quel bulbo. Piombo, arsenico, ferro, manganese. Ed ha un altro business, la monnezza. Moneta contante per chi la gestisce. Le acque profonde delle falde, lambiscono la coltivazioni, uniscono il tumore scavato nelle vallate con i giardini profumati dei kiwi. In mezzo c’è un fiume, l’Astura, e una terra di nessuno chiamata S0. Tutto iniziò da lì, da un vallone dove i camion del comune di Latina cominciarono nel 1973 a scaricare la monnezza. Poi arrivarono le altre buche, una, cinque, alla fine nove invasi, con milioni di tonnellate di rifiuti.
Il peggior incubo di chi qui è nato e cresciuto si è dimostrato alla fine reale. Dal 2009 i tecnici dell’Arpa Lazio hanno iniziato cercare la traccia dei veleni fuori dagli invasi della discarica cresciuta a dismisura. C’era il timore che le sostanze normalmente presenti nelle falde avessero superato il fiume, confine labile con le coltivazioni. Dal 2010 l’ente ambientale che dipende dalla Regione Lazio ha iniziato a prelevare i campioni delle falde acquifere sui bordi dei campi, oltre il fiume. Il risultato è un pugno nello stomaco. L’arsenico, ad esempio: prendendo come limite di legge i 10 microgrammi per litro, nei due pozzi della rete piezometrica che contorna il fiume Astura dalla parte della Valle d’oro l’Arpa ha trovato valori fino a 30 volte superiori. Nel giugno del 2010, ad esempio, un campione conteneva 260 microgrammi di arsenico per litro; nel gennaio del 2011 in un altro prelievo è stata riscontrata una concentrazione di 382 microgrammi per litro. Valori che vanno aldilà di ogni limite. E ancora, il pericolosissimo piombo: i grafici del rapporto che il manifesto ha potuto consultare mostrano istogrammi ben oltre i valori consentiti. E infine il ferro, il manganese, con tassi di concentrazione oltre le medie della zona.
Non è solo un problema di veleni, trovati nelle falde a pochi metri dalle coltivazioni pregiate di frutta e verdura. È una questione di silenzio. Questi dati sono contenuti in un rapporto mai divulgato alla popolazione, partito dagli uffici dell’Arpa Lazio il 20 marzo del 2012. Un secondo rapporto – consegnato lo scorso maggio – è ancora introvabile, mantenuto sotto riserbo dagli uffici ambientali della Regione Lazio. La scorsa settimana diverse testate di Latina lo avevano chiesto, dopo che si era sparsa la voce su una contaminazione delle falde acquifere della zona agricola vicina a Borgo Montello. Il commissario dell’Arpa Lazio, Corrado Carruba, quei dati non li ha voluti fornire: «Manca una valutazione finale dell’Ispra», aveva spiegato. La Regione Lazio ha fatto di più, diffondendo un comunicato stampa perentorio: «I dati non sono ancora disponibili perché incompleti».
Di avviso diverso l’Ispra, chiamata in causa dalla agenzia regionale diretta da Carruba: «Si ritiene che i dati siano pubblici e che siano accessibili presso gli Enti preposti», hanno risposto ad una richiesta specifica del manifesto i dirigenti dell’istituto sotto la responsabilità del ministero dell’ambiente. Per poi aggiungere, chiarendo ulteriormente il quadro: «L’approfondimento tecnico del modello concettuale del sito insistente nell’area delle discariche di Borgo Montello, è del tutto indipendente dal procedimento amministrativo di bonifica e/o messa in sicurezza che resta in capo agli enti preposti». Un concetto che, tradotto, suona più o meno come una smentita della versione divulgata dalla regione e dall’Arpa Lazio.
Nessuno, da quando il rapporto è stato consegnato alla regione e al comune di Latina, ha avvisato del pericolo la popolazione e i coltivatori. Non risulta al manifesto nessuna campagna di analisi specifica delle acque utilizzate per la coltivazione della frutta e degli ortaggi nella zona di Valle d’oro. Eppure l’arsenico è un cancerogeno di prima classe, capace di concentrarsi nei prodotti agricoli e, alla fine della filiera, nel corpo. Forse quei veleni sono confinati nei due pozzi utilizzati per il monitoraggio, e forse i dati raccolti lo scorso anno – numeri tenuti ancora sotto chiave – potranno rassicurare tutti. Difficile dirlo, visto il silenzio che oppongono le istituzioni regionali. Quello che è certo sono le morti, diffuse attorno alla discarica e ai terreni che i casalesi qui controllavano. In una sola via, a pochi metri dal casolare sequestrato agli Schiavone, dove gli abitanti ricordano l’arrivo dei camion carichi di fanghi, su dodici famiglie si contano cinque morti per tumore nell’ultimo anno e mezzo: «Dovete valutare con attenzione quello che noi avvocati chiamiamo nesso causale», rispondono dall’Arpa Lazio. Per ora da queste parti aspettano i dati sui veleni.