Succede, a volte, che un richiamo imprevisto induca uno scrittore a interrompere la stesura di un’opera per dedicarsi a un’altra, percepita come più urgente. Accadde, per esempio, a José Donoso quando nel 1973 mise da parte il testo cui stava lavorando, Lagartijia sin cola, per dedicarsi a Casa de campo (sontuosa allegoria della situazione politica e sociale cilena), spinto – sostenne la figlia Pilar – dall’improvvisa notizia del golpe.

A Valeria Luiselli, forse la più celebrata tra le giovani scrittrici messicane di oggi, è accaduto qualcosa di simile proprio mentre progettava un nuovo romanzo, alla fine di un lungo viaggio con marito e figli nei giorni della cosiddetta Border Crisis, quando il brusio della radio, i titoli dei giornali e le voci della strada sembravano ripetere sempre la stessa notizia: migliaia di bambini e ragazzi, provenienti dal Centro America e dal Messico stavano entrando negli Stati Uniti clandestinamente e con ogni mezzo, in cerca di una famiglia che li aveva preceduti, o semplicemente della sopravvivenza.

Di ritorno a New York, idee e appunti per il romanzo andavano moltiplicandosi, e così pure gli arrivi dei giovanissimi migranti, contro i quali l’amministrazione Obama si era affrettata a emanare il Priority Juvenile Docket, per un’espulsione più rapida ed efficiente. Fu allora che Luiselli cominciò a occuparsi dei piccoli «intrusi», facendo da interprete per la Icare Coalition, riempiendo moduli, ascoltando decine di storie.

Quasi subito, si sentì obbligata a lasciare il romanzo in «animazione sospesa» e a virare verso un asciutto pamphlet che metteva il linguaggio letterario al servizio dell’indignazione, usando come scheletro le quaranta domande di uno spietato questionario burocratico. È nato così Dimmi come va a finire (pubblicato in Italia nel 2017 da La Nuova Frontiera, editore di tutta l’opera di Luiselli), premiato l’anno scorso con l’American Book Award e primo testo in inglese di una scrittrice cosmopolita che, cresciuta lontano dal suo paese d’origine al seguito di un padre diplomatico, si è stabilita da anni negli Stati Uniti e passa con scioltezza da una lingua all’altra.

Scritto in inglese

Dopo due romanzi in spagnolo – Volti nella folla, del 2011, e Storia dei miei denti, apparso nel 2013 – Valeria Luiselli ha scritto in inglese anche il terzo, Archivio dei bambini perduti (La Nuova Frontiera, pp. 448, e 20,00) che riutilizza in altra chiave parte dei temi, degli avvenimenti e dei personaggi del pamphlet. Il romanzo interrotto ha così ripreso vita e, splendidamente tradotto in italiano da Tommaso Pincio, procede lungo e lento come il viaggio in auto che l’ha ispirato, e che nel 2014 portò l’autrice e i suoi da New York all’Arizona. Con altrettanta lentezza andrebbe letto per non farsene sfuggire gli infiniti dettagli, le figurine e i paesaggi che sembrano ritagliati nella celluloide di vecchie pellicole, le innumerevoli storie (vere, inventate, ascoltate, lette) che si giustappongono e si incatenano, i brandelli di autobiografia appena velati, i ricordi che si insinuano tra le pieghe del presente.

Frammenti, digressioni, sguardi rapidi e dolorosi che registrano il progressivo avvento del disamore, parole e immagini che danno conto della crescente isteria provocata dalla «invasione» dei minori non accompagnati, sono tenuti insieme dalla scrittura squisita di un’autrice ormai completamente padrona dei propri mezzi espressivi. Come nei romanzi precedenti, Valeria Luiselli ripropone e addirittura accentua la componente metaletteraria che le è caratteristica, accumula e utilizza materiali diversi (bibliografie, citazioni, immagini, brani di testo) senza risolversi mai in puro esercizio formale, perfino quando l’artificio è laborioso come nelle «Elegie» finali, rielaborazioni dell’immaginario libretto sulla Crociata dei fanciulli di una immaginaria autrice italiana, Ella Camposanto, disseminato di schegge di scritture altrui, da Pound a Omero, a Conrad, a Eliot, a Rulfo, a Monterroso, a Rilke.

I volumi disposti negli scatoloni che la famiglia porta con sé compongono una fitta bibliografia pronta a dilagare nelle pagine del romanzo: letture non solo condivise e commentate, ma utilizzate come parti indispensabili di una realtà da costruire, insieme alla «colonna sonora» (Johnny Cash, David Bowie, Odetta, i Clash, gli Higwaymen, ma anche i suoni del mondo circostante) che un chilometro dopo l’altro scandisce il ritmo di un viaggio guidato da desuete mappe cartacee e documentato da polaroid sbiadite. Avventura e ricerca di sé si fondono, come nella più classica tradizione letteraria e cinematografica nordamericana, lungo strade infinite e deserte, tra motel improbabili e poliziotti sospettosi, mentre corre in parallelo la storia di una famiglia dei cui membri conosciamo solo i ruoli e le professioni, mai il nome.

Le storie degli Apache

Il padre è un documentalista «sonoro» che registra i suoni del deserto (Desierto sonoro è il titolo spagnolo del libro), inseguendo la memoria di una tribù deportata in Arizona; la madre è una documentarista venuta dal giornalismo e votata perciò non alla raccolta e all’archiviazione, ma al racconto (e il solo racconto significativo, per lei, è adesso quello di una doppia crisi: la migrazione infantile e un matrimonio in frantumi); i figli sono fratellastri di dieci e cinque anni che esercitano con perizia il loro mestiere di bambini, facendo moltissime domande, cogliendo ogni bisbiglio, fornendo le proprie interpretazioni del mondo.

Mentre si avvicinano a una frontiera che serve a «tenere fuori» ma anche a «chiudere dentro», fratello e sorella si fanno raccontare dal padre storie sugli Apaches sconfitti e le intrecciano a quelle che ossessionano la madre, sui bambini in cerca di scampo nella nazione che – pur corresponsabile della devastazione da cui fuggono – li considera solo removed aliens, alieni da rimuovere. Sarà la voce del ragazzo, allora, a sostituire quella materna, e il suo punto di vista a prendere il sopravvento nella seconda metà del romanzo, che si fa meno realista, assume un tono di quasi onirico lirismo, lascia affiorare le voci e i corpi dei respinti e inverte la direzione del viaggio: non solo in orizzontale – avanti e avanti, come la Bestia, il treno merci sul quale si arrampicano i migranti, o come i passi nel deserto – ma in verticale, giù e in basso, verso le profondità e le visioni delle mitologie mesoamericane.

Nessuno è uno scarto

Tutto, inclusa la consapevolezza di una frattura familiare sempre più profonda, si mescola agli occhi dei fratelli in un’unica storia, ed è quasi inevitabile che decidano di perdersi a propria volta, ingenuamente pronti a soccorre i migranti, come a far presente che anche loro dovranno affrontare una separazione, un’assenza futura, una mutilazione. Quello che stanno cercando di dimostrare, penetrando nel limbo di uno spazio e di un tempo terribilmente mutevoli, inospitali e minacciosi, è forse che tutti i bambini sono in un certo senso «perduti», che tutti hanno diritto a essere ritrovati, e che nessun essere umano è materiale di scarto: Valeria Luiselli è riuscita a dirlo con insolita profondità, tra le pagine di questo suo romanzo composito, denso, sovrabbondante e punteggiato di quelle minuscole, commoventi imperfezioni che rendono unico un manufatto.