Forse il nome di Wilhelm Reinhold Valentiner (1880-1958), in Italia, fuori dalle aule universitarie, dice poco. È sicuramente noto agli studiosi di scultura medievale, a chi si è occupato di Giovanni Pisano, Tino di Camaino, Agostino di Giovanni… Lo si sente nominare ai corsi di museologia, magari di sfuggita, tanto da aleggiare come una figura quasi senza peso, richiamata per i suoi ruoli nei musei americani o per l’attribuzione giusta o sbagliata di quella o quell’altra scultura, ma anche per le sue sviste o per le ricostruzioni storiche d’insieme che hanno o non hanno – forse più la seconda – retto il passare del tempo e l’avanzare degli studi. Eppure il suo ruolo nello sviluppo dei musei occidentali è stato di primo piano.
Nato in Germania, allievo e assistente di Henry Thode, poi collaboratore del più grande conoscitore di scultura allora vivente, Wilhelm Bode, dopo diverse esperienze formative nel suo paese d’origine, neppure trentenne diventa direttore del Dipartimento di Arti Decorative del Metropolitan Museum di New York dove organizza le sale con i criteri moderni imparati da Bode e saggiati a Berlino, accrescendo le collezioni grazie a mecenati dal potere economico quasi illimitato come J. P. Morgan. Tornato in patria, sotto le armi conosce Franz Marc, che lo introduce alle articolate problematiche sottese alla nascita del Blaue Reiter. Dopo la fine della Grande Guerra e durante la Rivoluzione si avvicina al movimento espressionista tedesco, intessendo rapporti duraturi con artisti come il pittore Karl Schmidt-Rottluff e lo scultore Georg Kolbe, il migliore «poeta lirico tedesco». Nel 1921 torna negli Stati Uniti, dove ha una parte da protagonista nella costruzione del museo di Detroit del quale, nel 1924, diventa direttore. Ancora finanziamenti faraonici e acquisti: Matisse, Rembrandt, Tiziano, Bellini, ma anche le opere degli amici espressionisti come Kolbe, e a pagare non sono solo i Ford, ma un’intera comunità che sostiene lo sforzo economico con la convinzione di investire sul proprio futuro. Da qua fino alla morte le mostre, gli articoli, si intervallano ad altri, numerosi, incarichi di spicco: a Los Angels, Raleigh, Malibu… Per comprendere meglio le scelte di Valentiner, coglierne la complessità, i legami con la sua epoca e il suo ruolo nella formazione della moderna Kunstwissenschaft, si può leggere adesso «Un occhio finissimo» Wilhelm R. Valentiner (1880-1958) storico dell’arte tra Germania e Stati Uniti di Marco M. Mascolo (Viella, pp. 281, euro 32,00).
Il Valentiner che emerge dal libro di Mascolo è una personalità innervata di ragioni etiche, animata dalla necessità di rileggere se stesso attraverso un parametro di volta in volta ritarato su un presente che, quasi biologicamente, si connette al passato – la ricerca di uno «spirito germanico» o di un’arte «puramente germanica», per esempio. Così, l’arte contemporanea diventa un grimaldello per far saltare i pregiudizi sulle opere del passato e cercare, grazie a queste, una legittimazione per quelle del presente. E per questo, il museo pensato da Valentiner deve essere un’istituzione allineata con la modernità, in grado di educare attraverso impulsi estetici suggeriti da un allestimento dal forte valore evocativo, in cui i manufatti, al di là del loro genere e del loro valore intrinseco, trovano un dialogo. Per Valentiner, ma anche per i suoi finanziatori, il museo ha quindi un ruolo sociale ben definito: la sua funzione educativa deve essere lo stimolo per una continua rinascita delle arti. L’arte, d’altronde, trasforma anche i fatti più tragici come la guerra in espressione di bellezza e continua a essere la chiave privilegiata per aprire porte tra epoche diverse della storia umana, in un continuo rimando tra passato e presente. Valentiner percorre questa strada nel modo più disinvolto possibile: Giovanni Pisano si accomuna a Rodin; le sculture di Agostino di Giovanni e Agnolo di Ventura, costituite a partire da linee e forme geometriche compatte, come gli ampi spazi triangolari generati dai ricaschi del panneggio, i lunghi nasi pronunciati, sembrano seguire le stesse regole compositive del Cubismo; per non dire dell’esempio catalizzatore, cioè il rapporto tra l’Espressionismo tedesco e l’arte medievale, legati da una serie di coincidenze stilistiche mosse, nella lettura di Valentiner, da spinte sociali simili.
Marco Mascolo approfondisce due grandi poli della vicenda di Valentiner: da un lato l’impegno nei musei, le energie spese e la spinta che muove lo studioso nel primo periodo americano, dall’altro il suo avvicinamento allo studio della scultura. Entrambi questi aspetti trovano alimento e relazioni nella biografia dello storico dell’arte, nei suoi incontri, nelle sue letture, nel suo «occhio finissimo»: sulla sua strada si imbatte, tra gli altri, in Roger Fry, Hermann Voss, Bernard Berenson; la sua costante attenzione al contemporaneo lo ha avvicinato a Gropius, Delaunay, Diego Rivera, per fare solo qualche nome; il suo sguardo, il suo gusto, lo hanno sorretto in un corpo a corpo sottile e profondo con le opere.
Quanti suggerimenti può dare, oggi, questa carriera? Emergono dei nessi che nei decenni pare siano andati sclerotizzandosi fino a morire, come il legame tra museo e società civile, laddove il museo non era solo fabbrica di prodotti e consumi intellettuali, ma luogo di investimento civico costante. Poteva certo produrre o esporre mostre, ma era in se stesso, nell’esposizione e nell’arricchimento del suo patrimonio, che definiva il proprio ruolo pedagogico. L’allestimento evocativo sperimentato in più occasioni da Valentiner mescolava sculture, quadri e arti decorative secondo un principio di coerenza stilistica tanto caro a Bode. Oggi sarebbe impensabile, ma quella fusione, almeno nell’intento, era un espediente per agevolare la comprensione di un’epoca stilistica senza mancare d’essere anche un’antologia figurativa comprensibile per diversi livelli di pubblico, oltre che un volano per le arti industriali. Quando Valentiner, ora diremmo in modo quasi spregiudicato, orientava gli acquisti e il gusto dei milionari di Detroit e New York, dei Ford o dei Rockefeller, lo faceva forte della consapevolezza del proprio ruolo e della propria missione e i vari Ford, Rockefeller eccetera, definivano attraverso il collezionismo le loro ambizioni pubbliche. Il mecenatismo coronava infine questi propositi all’interno della società. Con la maggior parte dei notabili attuali, la distanza sembra siderale. Lo stesso vale per alcuni direttori di musei. Ma è pur vero – Valentiner lo diceva in un suo articolo del ’54 su Tino da Camaino, il maggiore scultore senese del Trecento – che le opere d’arte, il loro apprezzamento e quindi il loro godimento, sono soggetti alla relatività del gusto che è mutevole nel tempo.
Questa relazione è ancora più evidente nel percorso dello studioso: durante la Rivoluzione che in Germania seguì la fine della Grande Guerra, l’Espressionismo rischiò di diventare la forma artistica «nazionale», ritenuta adatta alla modernità in un generale ripensamento della funzione sociale dell’arte. L’arte condensava le esperienze traumatiche recenti in nuove idee di bellezza, in una «nuova religione dello spirito». Uno spirito gotico che trovava eco nella vocazione realista dell’arte tedesca. In questo frangente Valentiner non risparmiò l’impegno politico, e non sarà un caso – Mascolo lo sottolinea bene – che la sua messa a fuoco dei dati stilistici della scultura del Medioevo cada proprio in questi anni di vicinanza all’Espressionismo: la curva dello sviluppo artistico non aveva seguito tanto le leggi della ragione, quanto quelle del sentimento. In questo modo, con una sensibilità aperta alla combinazione e con una capacità di lettura stilistica pregnante, Valentiner ha decodificato alcune delle pulsioni più profonde del proprio tempo, senza separare mai carte e vita; negli stessi anni, attraverso simili commistioni magnetiche tra passato e presente, i problemi posti dalla scultura di Boccioni hanno fatto sobbollire altre radicali revisioni nei pensieri del giovane Roberto Longhi… Oggi, in modo beatamente inconsapevole, andiamo per strade diverse.