Valentina Pedicini, «Vale», cercava sempre la luce. Era attratta dalla luce e dalla notte. Le piaceva infilarsi in luoghi angusti, in spazi chiusi, bui: miniere, monasteri. Luoghi in cui la vita scorreva secondo «altri» codici, per la maggior parte delle persone incomprensibili, estremi, persino folli. E immersa in quel buio, poi, cercava la scintilla. Stava lì e osservava, con pazienza, senza giudicare nulla e nessuno, senza mai imporre la sua presenza, senza mai tradire il suo sguardo. Semplicemente attendendo. Lasciando che le cose seguissero il loro corso per poi catturarle con la macchina da presa e svelarle, con una certa forma di sacralità, allo spettatore e forse persino agli stessi protagonisti dei suoi film. Film che riflettevano come uno specchio, all’interno del quale non sempre è facile guardare.

«RESPIRA. Respira piano. Presto i tuoi occhi si abitueranno al buio. Non aver paura». Lo schermo era nero, avvolto nell’oscurità della miniera Nuraxi Figus, in Sardegna, nella provincia di Carbonia-Iglesias. E queste erano le parole di Patrizia, una delle donne-minatore protagoniste del suo primo film Dal Profondo, selezionato al Festival Internazionale del Cinema di Roma, candidato ai David di Donatello come Miglior Documentario, vincitore del Premio Solinas e del Nastro D’Argento. Parole che oggi, in questa giornata assurda e nefasta, si bloccano in gola. Perché Valentina, «Vale», non c’è più. Si è spenta nella notte tra giovedì e venerdì, portata via troppo presto da un male contro il quale lottava in silenzio da mesi.

La sua ultima volta a un festival in presenza risale allo scorso mese di febbraio, quando Faith fu presentato alla Settimana della Critica in occasione della 70esima Berlinale, solo un attimo prima del diffondersi dell’odioso virus, che non è comunque riuscito ad arrestare il lunghissimo viaggio del film, acclamato dalla critica e dal pubblico di mezzo mondo, da Göteborg a Vilnius, dal CPH:DOX di Copenaghen al Biografilm di Bologna e alla sezione Nuove Impronte dello Shorts International Film Festival di Trieste dove si era imposto con due riconoscimenti tra cui quello al Miglior Film. Candidato ai Nastri d’Argento, Faith era stato premiato anche al prestigioso festival Docs Barcelona.

Valentina era nata a Brindisi 42 anni fa. Aveva raggiunto con il massimo dei voti un diploma in regia presso la Zelig International School of Documentary Film. È infatti il documentario la sua grande passione: l’osservazione del reale e la sua interpretazione, pur avendo mantenuto in ogni occasione uno sguardo sempre incredibilmente sincero e rigoroso.
Nel 2009 e nel 2010 realizza i documentari Mio sovversivo amor e My Marlboro City, ma l’esordio vero e proprio è del 2013, con il citato Dal Profondo, un affascinante viaggio nelle cavità delle miniere sarde, al fianco di un gruppo di donne che vivono e lavorano in un mondo di uomini, immerse nella polvere di carbone sottoterra, cinquecento metri sotto al livello del mare.

TRE ANNI DOPO, nel 2016 Valentina firma il suo primo cortometraggio di finzione, Era ieri, presentato alla 31esima Settimana della Critica di Venezia. Un piccolo racconto intimo e personale che la regista dedicava «a se stessa bambina», un ricordo di gioventù, l’autobiografia che si incontra con la finzione, una volta tanto en-plen-air, su una spiaggia delle coste del Sud, con due piccole protagoniste complici di un amore segreto, contrastato da rivalità maschili. Eppure, anche in questa occasione, mentre assistiamo a un toccante coming-out giovanile che si consuma tra sabbia, mare e vento che accarezza i capelli, il percorso chiaramente avanza dal buio del segreto alla trasparenza della luce del sole.

Una luce accecante e magica, anche un po’ malinconica, quella di cui Valentina era sempre in affannosa ricerca. L’anno seguente, il 2017, è quello dell’incursione nella fiction. Il suo primo, purtroppo unico lungometraggio di finzione Dove cadono le ombre viene presentato in concorso alle Giornate degli Autori alla Mostra di Venezia. Un racconto intrappolato tra le mura asfissianti (spazi chiusi!) di un istituto per anziani, in Svizzera, in passato teatro degli orrori: un orfanotrofio per bambini Jenisch sottratti alle famiglie, dove veniva sistematicamente condotto un progetto di eugenetica chiamato «Pro Juventute». Buio e luce, ancora. Dalla colpa della rimozione, al riscatto della memoria.

VALENTINA, «Vale», guerriera gentile, fragile battagliera dalle spalle larghe e dagli occhi buoni, silenziosa di una timidezza che confidava soprattutto nella forza delle sue immagini, amava andare a fondo delle cose, osservare i particolari, perché è nei dettagli che spesso si nasconde la verità. Forse per questo Faith, il suo ultimo sofferto documentario, è stato tanto faticoso. Un’immersione sfiancante, lunga cinque mesi, all’interno di una comunità di monaci che vivono isolati sulle colline marchigiane alla ricerca di spiritualità: i Guerrieri della Luce, intrappolati in un inconciliabile conflitto tra sacro e profano, tra ombre e fede. Un’opera che oggi, nel giorno insensato della sua scomparsa, appare più dolorosa che mai. Quasi un testamento. Un testamento spirituale in rigoroso bianco e nero. Per Vale avremmo immaginato ancora un lungo e radioso cammino, ancora alla ricerca di quella «luce» che ha fatto sempre parte della sua breve ma intensa filmografia. Ma un male ha interrotto con troppo anticipo il suo percorso, privandoci di una vera amica e di una delle più promettenti e sensibili voci del cinema italiano del futuro.