Lo scorso anno, secondo il quotidiano Il sole 24ore, oltre cinquecentomila italiani hanno versato l’otto per mille ai valdesi. LUn quarto rispetto ai due milioni e più che hanno scelto la chiesa cattolica. Ma in Italia i valdesi dichiarati sono circa ventiseimila, contro i quarantacinque milioni di cattolici. Perché, allora, guardando la proporzione delle cifre, gli eredi della parola di Pietro Valdo, che anticipò di tre decenni san Francesco nel predicare il ritorno della chiesa alla povertà e di tre secoli e mezzo le Tesi di Martin Lutero, piacciono così tanto a chi pratica un’altra fede, è agnostico, o addirittura ateo? Nel 2010, sul mensile Micromega, all’interno di un articolo molto polemico nei confronti di quello che definiva «Un balzello clericale che arricchisce la Chiesa gerarchica come Mammona e viola sfacciatamente il principio di laicità dello Stato», il filosofo Paolo Flores d’Arcais scriveva «C’è però già la possibilità, per quanto possa suonare paradossale, di combattere il clericalismo con la religione. Esiste infatti una confessione religiosa che si impegna solennemente – e fornisce tutti gli strumenti di controllo – a utilizzare la sua quota di otto per mille esclusivamente per opere di beneficenza o promozione culturale, puntualmente elencate, e di non spendere neppure un euro per i propri pastori d’anime o per le strutture materiali delle proprie chiese». I valdesi, appunto, la cui storia lunga otto secoli è storia di scomuniche, stermini, esili, clandestinità, ghettizzazioni, terminati in Italia con la promulgazione, il 17 febbraio del 1848, delle Patenti Albertine, che sancivano: “I Valdesi sono ammessi a godere di tutti i diritti civili e politici de’ Nostri sudditi; a frequentare le scuole dentro e fuori delle Università, ed a conseguire i gradi accademici”. In un popolo che così tanto e per così tanto tempo aveva lottato per la propria libertà, era dunque naturale germogliasse il seme della solidarietà, della difesa, del soccorso verso i poveri e gli emarginati. E diventasse altrettanto naturale schierarsi dalla parte delle minoranze, contro ogni tipo di discriminazione. Se anche voi avete firmato il vostro otto per mille a favore dei valdesi, allora vi suggeriamo un viaggio di conoscenza, un piccolo Grand Tour, che ha come meta principale la cittadina piemontese di Torre Pellice, la Ginevra italiana secondo la definizione di Edmondo De Amicis in Viaggio alle porte d’Italia. A Torre, ‘capitale’ delle valli valdesi – Pellice, Chisone e Germanasca – sono molti i nomi delle vie, i monumenti, gli edifici, i dintorni, che raccontano il cammino da Valdo alle Patenti Albertine e ne ricordano i protagonisti: tra di loro il guerrigliero Giosuè Gianavello, XVII secolo, e il benefattore inglese John Charles Beckwith, generale alla battaglia di Waterloo.

Il 31 ottobre del 1517 Martin Lutero affisse sul portale della Schlosskirke di Wittemberg le novantacinque Tesi con cui chiedeva di fermare la scandalosa pratica delle indulgenze. Quella data divenne in seguito celebrazione europea del Giorno della Riforma. Non è perciò un caso che Torre Pellice abbia scelto il 31 ottobre scorso per l’apertura del nuovo Museo Storico Valdese. In principio, era il 1889, bicentenario del Glorioso Rimpatrio dei valdesi dall’esilio svizzero sotto il comando del pastore combattente Henri Arnaud, il museo venne allestito al secondo piano della Casa Valdese, e cinquant’anni più tardi trasferito nei locali della Foresteria. Qui rimase fino al 1989. Con il terzo centenario del Rimpatrio, la Tavola Valdese e la Società di Studi Valdesi decisero, infatti, di creare la Fondazione Centro Culturale Valdese, finalizzata a gestire la Biblioteca, l’Archivio fotografico e il patrimonio museale, collocandoli nell’edificio dell’ex Convitto. Con pochissimi mezzi e tanta buona volontà, gli ambienti furono adattati a ospitare ricostruzioni, parte dei cimeli, stampe, foto, materiali documentari e di carattere etnografico. Per dirla in totale franchezza, un modesto museo che si limitava ad adempiere con dignità ai suoi compiti. Il progetto degli architetti Margherita Bert e Massimo Venegoni, già autori degli interventi sugli spazi espositivi del Forte di Bard, Valle d’Aosta, è andato ben oltre il puro ripensamento estetico e funzionale. Spiega il direttore Davide Rosso «Non ci siamo limitati a un semplice riallestimento basato su strumenti più moderni, ma abbiamo pensato un nuovo museo, rappresentazione della comunità e al medesimo tempo ‘autoriale’, che per ciascun periodo ha avuto uno o più studiosi a curarne i contenuti». Entriamoci allora, scoprendo subito che il filo narrativo intreccia il proverbiale rigore valdese, in questo caso storico e scientifico, con la capacità di emozionare, sorprendere, incuriosire. Il visitatore attraversa le vicende valdesi dal Medioevo al Novecento avvolto un involucro di architetture, prospettive, colori, luci, vetrine, mappe, immagini, suoni. Le dimensioni delle sale sono volutamente contenute, volutamente pochi sono i reperti ospitati all’interno di ciascuna insieme ai pannelli didattici. Quasi un invito al raccoglimento per meglio comprendere e apprezzare. Ad esempio la prima edizione della Bibbia di Olivetano, una delle centodieci Cinquecentine della Riforma, parte di un fondo librario donato alla Biblioteca nella seconda metà dell’800 da tale Don Simpsons, la cui identità rimane tuttora sconosciuta. Poi le armi della resistenza e del Rimpatrio: la beidana, sorta di machete ricavato da una roncola, e la colubrina usata da Gianavello. Racconta Rosso «Giosuè convinse un artigiano a fabbricarne altre per le sue truppe, ma siccome non pagava, la fornitura si interruppe». Mai aveva trovato posto nel museo precedente il vessillo seicentesco della famiglia di Henri Arnaud, in mostra con altre bandiere. Curiosi e preziosi la gamba di legno che sostituì l’arto perduto da Beckwith a Waterloo, il volume dell’Histoire Remarquable des vaudois, gli stendardi azzurro e oro realizzati in omaggio a Carlo Alberto e a Roma capitale. È cronaca tanto più drammatica nella sua asciuttezza, la sezione che documenta il popolo valdese negli anni del nazifascismo. L’ultima tappa, gradino dopo gradino, raggiunge la torretta panoramica affacciata sulle valli, dove tutto è iniziato e neppure le persecuzioni più feroci hanno saputo cancellare. Un mondo cui Umberto Eco, cittadino onorario di Torre Pellice, aveva pensato, nel 1982, di dedicare un romanzo. Non se ne fece nulla. Ma l’otto per mille che lo scrittore dichiarò di destinare sempre ai valdesi, rimane comunque una pagina di notevole valore.

 

Il convitto liberante

Una volta tornati all’ingresso del museo – l’androne, cui le lapidi dedicate ai cinquecento caduti in guerra della zona fecero subito assegnare il soprannome di ‘Atrio dei morti’- fermatevi a immaginare. Cancellati entrambi dalle varie ristrutturazioni, sul lato sinistro si apriva il camerone di babordo, che accoglieva i bambini di elementari e medie; sul lato destro il camerone di tribordo, per i ragazzi del ginnasio e del liceo. Oltrepassata una porta in legno e vetro, lo stesso piano ospitava la direzione, la sala studio, la saletta della TV. Una larga scalinata portava al piano di sopra, con l’alloggio del direttore, l’infermeria e le ‘camerette’ assegnate a convittori anziani particolarmente meritevoli. Una seconda scalinata scendeva al seminterrato, con le cucine, la sala da pranzo, lo spazio per i pingpong e i calciobalilla, il guardaroba, le docce e l’ingresso alla piccola piscina coperta. Questo, nei primi anni ’60 del secolo scorso, era il Convitto valdese di Torre Pellice diretto da Franco Girardet, che nella cittadina inaugurò un modello educativo divenuto esempio e punto di riferimento in campo pedagogico. Questo è stato il ‘mio’ convitto dal 1963 al 1967. Per quanto possa suonare strano parlando di un collegio, quattro anni di indimenticabile felicità. Girardet arrivò a Torre da Scandicci, Firenze, nel 1953, sesto direttore dopo l’inaugurazione ufficiale della struttura, il 4 settembre 1922, costruita per ospitare gli orfani di guerra. Ma furono in pochissimi a usufruirne. L’occupazione tedesca e i bombardamenti avevano malridotto l’edificio. Venne in soccorso un ex convittore illustre, Dino Olivetti, sesto e ultimo figlio di Camillo, tornato a Ivrea dagli Stati Uniti nel 1958. Sarà lui ad accollarsi la ricostruzione, che includerà la piscina, un campo da calcio quasi regolamentare, due campi da basket e da tennis. Collegio elitario, per chi aveva alle spalle genitori facoltosi?

Niente di più lontano dal pensiero di un direttore che, fin dagli inizi del suo mandato, introdusse il criterio delle rette differenziate a seconda delle possibilità economiche delle famiglie; che, ne fui testimone, rispediva al mittente corredi di vestiario da rampollo agiato. Durante gli anni della mia esperienza, i nomi e cognomi dei figli di editori, industriali, docenti universitari avevano lo stesso suono di quelli dei figli di operai, genitori separati, ragazze madri. In convitto, le differenze di ceto non esistevano. Questa fu la prima, fondamentale lezione impartita da Girardet a una collettività che tale doveva dimostrare di essere in ogni momento. Ciò che si apprendeva singolarmente diventava patrimonio comune, a cominciare dall’imparare a distinguere tra comportamenti corretti o scorretti. Mai buoni o cattivi. Rispettare le regole significava, prima di tutto, averle fatte proprie. Il camerone, accrescitivo poco gradevole, corrispondeva a una dimensione dove si era al medesimo tempo uno e tutti. Il tuo letto, il tuo comodino, il tuo lavandino nei bagni facevano parte di un luogo di scambio: confidenze sottovoce con il vicino, scherzi innocui, chiacchiere sottovoce. Prima di dormire, o durante il pomeriggio, il corridoio, attrezzato con sedie e tavoli, diventava punto di incontro per leggere, ascoltare musica da un giradischi, o massacrare i tasti del vecchio pianoforte. Un giorno arrivò Lorenzo Ferrero, futuro compositore, e nessuno toccò più i tasti bianchi e neri.

Ora (vi invito a pensare che stiamo parlando ormai di mezzo secolo fa) cercherò di spiegare perché ho scritto, poche righe sopra, di quattro anni di indimenticabile felicità. Lo farò senza altro ordine preciso che non sia dettato da ricordi ancora vivi. Sono stato un convittore responsabilmente indisciplinato. Ben cosciente del fatto che le libertà di cui godevo erano impensabili in altri collegi, mi era però difficile resistere alla tentazione di superarne i confini. A seconda dell’età, e comunque a partire dalle scuole medie, avevamo a disposizione un tot di ore settimanali di uscita, divise in blocchi da cinquanta minuti. Andavamo a spasso per il paese, strane creature non proprio gradite alla popolazione di Torre, o imbastivamo appuntamenti extraurbani e clandestini con la ragazza di cui eravamo perdutamente cotti. In tal caso era pressoché inevitabile tentare di falsificare il conto dei minuti, salvo essere smascherati dagli assistenti del direttore al momento della loro firma che certificava il rientro. Sempre a partire dalle medie e in base all’età, usufruivamo di una paghetta settimanale per toglierci qualche sfizio. Tra quelli illeciti c’era l’acquisto di sigarette, o peggio ancora il consumo di alcol al bar. Le punizioni, minuti e soldi in meno la settimana successiva, non prendevano di mira la colpa specifica, ma la mancanza di responsabilità. Altra importante lezione di Girardet, che mai si sarebbe prosciugata. Un pomeriggio, mentre ero in sala studio, l’altoparlante mi convocò dal direttore insieme a quattro o cinque compagni, tutti tredicenni. Non si trattava dei controlli ‘a sorpresa’, fatti per appurare se stessimo sognando o no sui libri. Una volta seduti, venimmo a sapere che avremmo seguito un corso di educazione sessuale, tre giorni di spiegazioni, confronto, domande, con la porta della direzione sempre aperta nel caso, come successe, che un argomento così delicato potesse metterci in crisi. Quanto alla scuola, eravamo assenti giustificati. Il convitto bene collettivo erano le squadre di calcio e di pallavolo, due manipoli di dilettanti allo sbaraglio che riuscirono a sbaragliare molte compagini locali; era lo spettacolo di varietà autogestito e messo in scena nel teatrino del paese per finanziare la stampa del mensile a circolazione interna; erano le assemblee cui si veniva chiamati a partecipare per decidere, discutere, risolvere piccole questioni generali. Alla fine del giugno 1967 scesi per l’ultima volta dall’accelerato Torre Pellice – Torino. Pochi mesi dopo e non a caso, salivo sulle barricate del ’68. Ti devo anche questo, caro direttore.

Terzo pezzo

Itinerario valdese

di L. D. S.

Informazione di servizio: il Museo Storico Valdese è aperto dalle 15 alle 18 e dal giovedì alla domenica, fondazionevaldese.org, 0121 932179. Usciti dal museo, fate vostra una salutare passeggiata alla scoperta dei luoghi valdesi di Torre lungo la via che porta il nome del già citato generale Charles John Beckwith. Qualche parola supplementare su di lui. La perdita di una gamba nella battaglia di Waterloo lo costrinse ad andare prematuramente in pensione. Fu allora che scoprì la storia del popolo di Valdo e ne rimase affascinato. Trasferitosi nella Ginevra Italiana, vi resterà fino al 1862, anno della sua morte, e investirà gran parte dei suoi beni per la costruzione di centinaia di Scuolette Beckwith, sparse tra le borgate delle valli. La capillarità di questa rete farà sì che i valdesi raggiungano allora un’alfabetizzazione vicina al novanta per cento, contro il venti per cento nazionale. Accanto al museo, il Collegio, 1835, che consentiva di poter studiare ai giovani banditi per discriminazione religiosa da altri istituti. Oggi è un liceo europeo con indirizzo linguistico. Di fronte, in cima a una breve scalinata, il Tempio, inaugurato nel 1852, con accanto la casa del pastore, eretta pochi anni dopo. Sullo stesso lato, tornando indietro di pochi passi, si incontrano le ex Case dei professori, un tempo residenze degli insegnanti del Collegio. Le architetture ricordano decisamente i cottage inglesi. Oltrepassato il Tempio, la Casa Valdese, 1889, dove si svolge ogni anno, ad agosto, l’assemblea del Sinodo, l’organo di governo della chiesa. Il bassorilievo in giardino è una copia del monumento innalzato a La Paz, Uruguay, per ricordare l’emigrazione di tanti valdesi in Sud America. Proseguendo verso il centro, sosta all’angolo con via D’Azeglio, sotto la statua che immortala Henri Arnaud, condottiero del Glorioso Rimpatrio. Emilio Musso, nel 1925, immortalò Henri armato di spada, la Bibbia infilata nella cintola. La statua battezza l’inizio di via Arnaud, e qui si trova la Foresteria, il Pensionnat femminile voluto da Beckwith nel 1844, poi sede del Museo Storico prima del suo trasferimento. Circondata da un grande giardino (foresteriatorre.org, 0121 91801) offre stanze deliziose a prezzi di estrema onestà. Durante l’inverno, però, ospita solo gruppi oltre le dieci persone. Rimanendo in tema di ospitalità, ma spostandoci a tavola, vivamente consigliato il ristorante Vecchio Piemonte, via della Repubblica 13, 0121 91547, chiuso mercoledì, 30 euro, anche pizzeria. Come da insegna, menu di impronta regionale, personalizzato dall’impiego delle materie prime autoctone, ad esempio la trota, i formaggi, la mustardela. Altro buon indirizzo è il Centro, via Caduti per la libertà 7, 0121 932006, sempre aperto, 35 euro. Piatti molto curati, tra ricette di terra e di mare. Non trascurate l’escursione alla Guieiza d’la Tana, ‘la chiesa nella tana’, nel comune di Agrogna. Spiegazioni e indicazioni pratiche vi darà la Pro Loco di Torre, via della Repubblica 3, 0121 933671.

Parola di Girardet

Nel 1974, Franco Girardet concluse la sua esperienza umana e pedagogica a Torre Pellice. Scelta voluta, oppure diplomatico allontanamento da parte del consesso valdese? L’interrogativo è doveroso, visto che le posizioni del direttore, nel corso degli anni sempre più improntate a una visione educativa certamente non allineata, avevano suscitato dissensi e malumori tra i residenti e gli amministratori della cittadina. Come dire: per amor del quieto vivere… Girardet è scomparso qualche tempo fa, alla più che rispettabile età di novantasette anni. Lungi dal mettersi in pantofole, nel 1977 aveva pubblicato per Guaraldi Editore di Firenze, Il convitto liberante, saggio, diario di bordo, riflessione, ricordo di due decenni vissuti in mezzo a centinaia e centinaia di ragazzi. Lo trovate in vendita sul web, ci troverete ben più dell’esperienza personale che abbiamo provato a raccontare. Nel 1987, sempre per Guaraldi, aveva dato alle stampe il romanzo Il Bambino dell’autostop, e nel 2006, con lo stesso editore, era tornato alla saggistica con Educazione e controeducazione

Quel gran genio di Eynard

La memoria valdese è fatta anche di cucina. Povera, ovviamente, figlia di ciò che un popolo confinato in mezzo alle montagne riusciva con immensa fatica a rimediare. Per secoli, le ricette delle valli erano state tramandate soltanto oralmente, messe in salvo da un passaparola mai interrotto. Un giorno, di quelle ricette ‘volatili’ si mette in caccia un ragazzo, futuro genio dei fornelli, Walter Eynard. Lui, nelle valli ci è nato e ci vive. Dunque inizia a carpire informazioni alle cuoche: la nonna, la mamma, le amiche di famiglia, le amiche delle amiche. E via via mette tutto per iscritto, scoprendo che la zuppa di pane e poco altro, la minestra di ortiche, l’arrosto cotto nel fieno, le rane all’aglio e prezzemolo, lo sformato di fiori di lavanda regalano sapori meravigliosi e sconosciuti. Walter li lavora, li esalta, li ingentilisce. E quando lo convincono, indossa i panni del cuoco, prendendo in affitto a Torre Pellice un’ex trattoria, cui lascia il nome semplice e antico, Flipot. La Guida Michelin arriverà ad assegnargli prima una e poi due stelle. Oggi Flipot è chiuso, ma il segno geniale di Walter è rimasto impresso e incancellabile nella cultura gastronomica italiana ed europea (lds)