Con la mostra in corso alla Galleria Borghese fino al prossimo 2 febbraio, Luigi Valadier (1726-1785), «virtuoso e rinomato» argentiere romano, si qualifica nuovamente quale figlio geniale della sua epoca, com’era stato già benissimo decretato dal titolo dell’iniziativa riservatagli nel lontano 1997 a Villa Medici.
L’attuale esposizione, curata da Anna Coliva, direttrice del museo in cui è ospitata, segue quella dedicata lo scorso inverno allo stesso Valadier dalla Frick Collection di New York: un evento che ha avuto tra l’altro il merito di dare alle stampe l’impeccabile monografia redatta sull’artista da Alvar González-Palacios, resa poi accessibile in italiano da Officina Libraria in un formato ridotto e più maneggevole. La sua lettura, inderogabile per intendere la prismatica personalità artistica di Luigi e dell’ambiente in cui operò, deve accompagnarsi, in quest’occasione, a quella del buon catalogo approntato per la rassegna romana dalla stessa casa editrice (pp. 376, euro 48,00). E farlo è d’obbligo se si desidera possedere le coordinate minime per meglio districarsi nel percorso di questa mostra, intitolata significativamente Valadier Splendore nella Roma del Settecento, essendo assente, per così dire, un «senso di marcia» lineare. È infatti il flusso del pubblico, qui, a imporre l’ordine di visita; non è detto, insomma, che questa prenda avvio dal piano terra, quello da cui tutti dovrebbero iniziare.
Il disguido di partire dalle sale del primo piano è comunque immediatamente ripagato sia dalla bellezza abbacinante del luogo in cui ci si trova, alla cui decorazione contribuì anche il nostro Valadier, sia dalla possibilità data dall’occasione: cioè quella di ammirare un’ottantina di opere tra quelle che Luigi e la sua folta schiera di collaboratori – in cui figurava anche il figlio architetto Giuseppe – realizzarono a partire dal 1762, anno di apertura della sua laboriosa bottega in via del Babuino, fino a quel fatidico giorno di settembre del 1785, quando l’artista cinquantanovenne, indebitato e forse «sgraziatamente attaccato da un’accesso di pazzìa», mise fine alla sua vita gettandosi nel Tevere.
Se Andrea, suo padre, nato in Francia sul finire del Seicento e trasferitosi a Roma già nel 1714, rimase strettamente legato al dettato classico della corte del Re Sole, come dimostra chiaramente il servizio d’altare per la basilica di Sant’Apollinare alle Terme Neroniane-Alessandrine (1748), cui collaborò anche il giovanissimo Luigi, questi, al contrario, si bilicò nella sua attività tra il profumato stile Louis XV di mezzo secolo (nel 1754 fu a Parigi, probabilmente per aggiornarsi) e le istanze di «ritorno all’ordine» di matrice antiquaria ed erudita che di lì a poco avrebbero dato slancio alla rinascita dell’Antico sotto l’insegna di quel neoclassicismo trionfante di cui la Città Eterna fu vero e proprio centro propulsore.
Gli anni sessanta furono il periodo più strettamente rococò di Luigi. In esso pienamente manifesta è la sua adesione a quel gioco ornamentale rocaille fatto di curve e contro curve, di conchiglie spezzate, di onde marine e di elementi vegetali variamente usati e bizzarramente disposti. Emblematici di questo momento sono la lampada a olio e i due grandiosi lampadari provenienti dal Santuario di Santiago di Compostela, la cui presenza in mostra – stanti pure le non indifferenti dimensioni – rasenta l’eccezionalità. È la prima volta, infatti, che queste opere hanno lasciato la loro originale collocazione (a molti metri da terra) per ritornare a Roma, cioè nel luogo in cui tra il 1760 e il 1764 vennero ideate e realizzate. Straordinaria è la coppia di lampadari (poco valorizzati però in catalogo) sistemati entro immense teche nella loggia aperta sul verde del parco, i quali sono formati da dodici sinuose braccia fittamente decorate. Se da un lato il punto di vista così ravvicinato fa apprezzare maggiormente l’alta qualità della lavorazione dei metalli, dall’altro concede di ragionare sulle capacità scultoree di Valadier, che, com’è noto, oltre ad argentiere si definì anche «statuario». Non va dimenticato che Luigi nel 1756 sposò la figlia dello scultore Filippo Della Valle, con il quale, quasi certamente, dovette impratichirsi in quest’arte. E l’immagine in bronzo dorato di San Giacomo Maggiore (così come le sei statue in argento provenienti dalla cattedrale di Monreale, in Sicilia, e il San Giovanni Battista in bronzo dal battistero lateranense) lo testimonia perfettamente, essendo questa figura benissimo strutturata, nobile, con una calibrata disposizione dei panneggi. A tal proposito, sembra utile segnalare qui, tanto agli studiosi dell’argentiere quanto a quelli di Della Valle, l’esistenza del modello preparatorio in terracotta del Santo. L’opera, mai messa in relazione con la scultura spagnola, faceva parte della raccolta di John Winter, grande antiquario londinese e tra i massimi studiosi dei Valadier. Venduta da Sotheby’s nel 2015 (The Winter collection, lot. 32) quale lavoro della cerchia di Camillo Rusconi, passò poi nella galleria Proust di Londra con due attribuzioni possibili: l’una a Giuseppe Lironi (suggerita da Anne-Lise Desmas, non condivisa però da Jennifer Montagu), l’altra ad Anton Francesco Andreozzi.
Accanto alla produzione di oggetti sacri (come il terzetto di carteglorie in bronzo dorato, argento e lapislazzuli di Santa Maria Maggiore, e l’elegantissimo servizio liturgico concesso in mostra dalla cattedrale di Muro Lucano) Luigi non mancò di soddisfare i desideri di una vasta committenza nobiliare internazionale, votata al lusso, in cui figurava anche Madame du Barry, la maîtresse-en-titre di Luigi XV: una donna, citando Benedetta Craveri, che «non si limitò (solo) ad accumulare quanto di meglio producevano gli artisti di grido, (ma) seppe farsi audacemente paladina del nuovo».
Nella sua Roma, accanto ai Chigi, agli Odescalchi, ai Rezzonico, Valadier lavorò moltissimo per Marcantonio IV Borghese, il quale non solo gli richiese un meraviglioso servizio d’argento – in cui si contano una bellissima caffettiera e due saliere in argento coi manici formati da coppie di satiri e satiresse che, insinuanti, si abbracciano e stuzzicano vicendevolmente – ma gli fece altresì arricchire il palazzo di città e la villa pinciana con arredi superbi e un’opera, l’Erma di Bacco (1773), che lasciò stupefatto per la sua adesione al gusto moderno anche il sommo Canova.
L’attività di Luigi come argentiere, bronzista, statuario e progettista di arredi vari (si guardi, per esempio, l’insieme di disegni, suoi e non, che formano l’Album di Faenza, interamente riprodotto in catalogo) va letta e intesa in equilibrio tra capriccio e ragione, in un percorso simile, ma non coincidente, a quello praticato da un’altra fulgida stella di quella strabiliante stagione artistica: Giambattista Piranesi. A causa dell’«arbitrio di coloro che i tesori posseggono, e che si fanno credere di potere a loro talento disporre delle operazioni della (Architettura)», al veneziano, secondo le sue stesse parole, scritte nel 1748, non restava «che spiegare con disegni le proprie idee, e sottrarre in questo modo alla Scultura e alla Pittura l’avantaggio (…) che hanno in questa parte sull’Architettura». Attraverso l’artefice romano, come ha ben intuito González-Palacios, le grandiose visioni architettoniche eternate da Piranesi in mille disegni e, di morsura in morsura, in altrettante incisioni, presero in qualche modo consistenza, materializzandosi sotto forma di quei deser che, d’oro, di marmi e di anticaglie composti, rappresentano oggi come allora una delle più alte vette raggiunte dall’arte di Luigi Valadier