Che potesse rivelarsi un disastro, anche per la salute, veleggiava nell’aria. Era nella convinzione di tanti. Adesso, a dar manforte alle preoccupazioni, ci sono i risultati di una relazione dell’Istituto superiore di sanità secondo cui fiumi e fiumicelli che guardano, cingono e corrono sotto le discariche di tossine di Bussi sul Tirino (Pescara) potrebbero aver contaminato, nel tempo, e fino al 2007, circa 700mila cittadini della Val Pescara. Semplicemente bevendo l’acqua, utilizzandola in casa, negli ospedali, nelle scuole. Ottantaquattro pagine inzeppate di dati tecnici che analizzano, scientificamente, circa 25 ettari di terreno che, in cent’anni di attività delle multinazionali della chimica, sono state infarcite di scorie nocive, anche cancerogene, smaltite senza criterio, seppellite dopo taciti accordi tra enti pubblici e multinazionali e in parte arrivate fino ai rubinetti di decine di migliaia di famiglie. Nell’area sono state interrate circa 250 mila tonnellate di rifiuti tossici e scarti della produzione di cloro, soda, varechina, formaldeide, percolati, cloruro di vinile, tricloroetilene e cloruro di ammonio. Il danno ambientale stimato è di circa 8 miliardi e mezzo mentre per la bonifica, che al momento è un sogno, occorreranno da 600 – 800 milioni.

Per circa un secolo quello di Bussi è un sito unico, l’eccellenza del settore. Un vanto che va anche oltre i confini nazionali. A farla da padrone, ad un certo punto, è il colosso Montedison che rileva gli stabilimenti. Per questa minuscola realtà significa benessere ma anche quantitativi immani di residui di lavorazione che vengono abbandonati, in più punti, e che vengono anche gettati direttamente nei corsi d’acqua. Intorno ai primi anni Settanta si decide, ufficialmente, di seppellire queste scorie e viene messo tutto per iscritto. Così, sul fiume Pescara, in località Tre Monti di Bussi, nel 1972, spunta un’imponente discarica di cui Provincia e Comune di Pescara e Regione Abruzzo sono a conoscenza. Qui, dentro buche, vengono scaricati i clorometani pesanti «che – spiegano i periti – sono solubili a tal punto da determinare una situazione di pesante inquinamento delle acque sotterranee, di cui sono i contaminanti più difficili da rimuovere». Ma più su, a nord dell’area industriale, ci sono altre due megadiscariche, a lambire il fiume Tirino. Anch’esse sono pericolose: queste ultime sono state autorizzate per gli inerti ma sono state sempre usate in maniera irregolare. Da Bussi sul Tirino, a mano a mano, il lavoro se ne va, ma resta la tomba di veleni. Questo piccolo centro, adesso, si ritrova addosso una delle più imponenti emergenze ambientali d’Europa.

Per questo scempio sono sotto inchiesta in 19, quasi tutti ex amministratori della Montedison, accusati di avvelenamento delle acque e disastro colposo. Il processo si sta svolgendo in Corte d’Assise a Chieti e la prossima udienza è fissata per domani, 28 marzo. La relazione dell’Istituto superiore di sanità, che porta la data di gennaio, è stata depositata proprio nel corso del processo dall’avvocatura dello Stato che difende il ministero dell’Ambiente, parte civile nel processo. Il documento, redatto da Riccardo Crebelli e Luca Lucentini, consulenti tecnici dell’avvocatura dello Stato, mette insieme quelli dell’Arta (Agenzia regionale per la tutela ambientale), della Forestale, i risultati dei campioni presi dai pozzi che riforniscono le condotte idriche, dalle fontane pubbliche, da prelievi eseguiti in vari comuni: Torre de’ Passeri, Pescara, Chieti, Tocco, Castiglione e Popoli. E viene sottolineato come «le azioni poste in essere nel sito industriale e nella mega discarica hanno pregiudicato tutti gli elementi fondamentali che presiedono e garantiscono la sicurezza delle acque, determinando così un pericolo reale e concreto per la salute». La relazione punta anche l’indice contro la mancata informazione: «La qualità e la protezione della risorsa acqua è stata indiscutibilmente compromessa» e «del significativo rischio non è stata data comunicazione ai consumatori che non sono stati in condizioni di conoscere la situazione ed effettuare scelte consapevoli». I veleni, nella relazione, fanno sfoggio di sé. Il cloruro di vinile? Il tricloroetilene? L’esacloroetano? Il tetracloruro di carbonio? Il cloroformio? Il dicloroetilene? «Sono cancerogeni nell’animale e nell’uomo», dicono i tecnici. L’esaclorobutadiene? «Cancerogeno e genotossico», scrivono. E da queste parti sono presenti, eccome. Gli «idrocarburi clorurati cancerogeni» superano talvolta migliaia di volte i limiti di legge, soprattutto nei sondaggi e campionamenti delle acque in profondità. Meno drastici i valori se si considerano le acque captate e convogliate nelle reti idriche, ma ne restano comunque tracce. «Il piombo? Risulta una contaminazione massiva del suolo. Esso è considerato elemento trascurabile per la salute degli adulti, ma esistono preoccupazioni per quanto riguarda lo sviluppo neurologico di feti, neonati e bambini. I valori medi riscontrati sui vegetali raccolti intorno al sito – viene fatto presente – nel caso di germogli di grano, risultano circa 292-561 volte superiori ai livelli tipici di concentrazione rinvenuti generalmente nell’alimento…». Il mercurio… «E’ inserito tra le 25 sostanze riconosciute come pericolose prioritarie… La sua tossicità è largamente nota e tende al bioaccumulo. E’ possibile affermare che, dal 1902, «ingenti quantità di mercurio sono state riscontrate nei rifiuti correlati ai cicli di produzione di Bussi» rivestendo «un notevole impatto su acque, sedimenti, suolo e sottosuolo. Il mercurio «veniva anche direttamente» svernato nei corsi d’acqua «superficiali».

In conclusione ha causato «uno scenario di contaminazione di elevata gravità», anche «nella forma organica altamente tossica», «anche in territori distanti… in considerazione della notevole volatilità dell’elemento». Un potpourri aberrante. «E la mancanza di informazioni relative alla contaminazione, – è la conclusione – ha pregiudicato la possibilità di effettuare trattamenti adeguati alla rimozione delle sostanze stesse dalle acque di origine, mitigando e gestendo i rischi in modo adeguato, anche ricorrendo eventualmente a limitazioni d’uso o approvvigionamenti alternativi». Così la popolazione di «un vasto territorio, per un elevato numero di utenze» ha ricevuto, ignara della situazione e dei rischi, «acqua contaminata da miscele di sostanze di accertata tossicità».

Questo accade fino a a 7 anni fa: poi l’emergenza viene alla luce, i rifiuti nascosti vengono stanati e vengono realizzati nuovi pozzi per l’approvvigionamento.

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