Linea intera, linea spezzata (Mondadori «Lo Specchio», pp. 107, € 16,00) è il nono libro nella parabola di Milo De Angelis, cominciata con lo splendido esordio di Somiglianze (1976) e riassunta, nel 2017, da un altro volume mondadoriano, che faceva il punto e rendeva di nuovo disponibili tutti i suoi lavori in versi, oltre a fornire una preziosa sezione di inediti giovanili (Tutte le poesie 1969-2015, a cura di Stefano Verdino). E ora come entra, quest’ultima raccolta, nella traiettoria di uno dei maggiori poeti italiani contemporanei? Conviene anzitutto assaggiarla, leggendo per intero la poesia di apertura, che è peraltro fra le più belle dell’insieme, intitolata Nemini: «Sali sul tram numero quattordici e sei destinato a scendere / in un tempo che hai misurato mille volte / ma non conosci veramente, / osservi in alto lo scorrere dei fili e in basso l’asfalto bagnato, / l’asfalto che riceve la pioggia e chiama dal profondo, / ci raccoglie in un respiro che non è di questa terra, e tu allora / guardi l’orologio, saluti il guidatore. Tutto è come sempre / ma non è di questa terra e con il palmo della mano / pulisci il vetro dal vapore, scruti gli spettri che corrono / sulle rotaie e quando sorridi a lei vestita di amaranto / che scende in fretta i due scalini, fai con la mano un gesto / che sembrava un saluto ma è un addio». Un paesaggio urbano alla Sironi, la Milano che un io solitario attraversa tutti i giorni, popolata di figure spettrali che lo attorniano, fino all’incontro con un tu femminile, che rimane però senza parola. Il lettore di De Angelis riconosce ingredienti noti, basti pensare all’«asfalto» (che per lui è quasi una parola-firma). Nella poesia si consuma una rivelazione minima, come se l’io aprisse gli occhi su una realtà che è diversa da come appare: l’esistenza che si ripete non è davvero compresa, l’incontro si ribalta in un congedo senza appello, tutto è come sempre, eppure non è di questa terra: un forte impulso di immanenza – la vita «così com’è», nella sua asciuttezza – scivola subito verso una dimensione altra, comunque enigmatica.
Non si può dire che quest’ultimo aspetto – la collisione fra l’attimo e l’eterno, o il metafisico – sia una novità nel percorso di De Angelis: si può rivendicarlo, anzi, come una delle qualità costanti della sua voce tragica. Eppure proprio quell’aprire gli occhi sul reale, con tutto il suo disincanto, implica uno scarto di tono, una mutata posizione del soggetto. Qualcosa è cambiato, nelle fibre dell’io che scrive. A vivere e a parlare, intanto, è un uomo che sta per raggiungere i suoi settant’anni, e che non può non voltarsi indietro, fare conti profondi con sé stesso, fino a calarsi nel ruolo dell’imputato, la cui colpa senza attenuanti sono le parole non pronunciate («E tu cominci a sentire, nelle parole che hai detto, il respiro / di quelle taciute: sono lì, sono lì, bussano alla porta»): la malattia del silenzio («dovevi parlare … guarire»). Questa intensità di sguardo, questa auscultazione di sé lascia nuovo spazio alle proprie difficoltà (anche fisiche, vedi Aurora con proiettili), soprattutto alla propria debolezza, a ciò che non si è compiuto: alla linea spezzata, appunto, oltre che a quella intera.
Tale attitudine comincia per la verità a farsi strada, in questo poeta, almeno da un libro come Tema dell’addio (2005), con la sua intensissima esperienza di morte (quella della moglie, Giovanna Sicari), e arriva a depositarsi poi nelle due raccolte successive («È tardi / nettamente», si legge già in Quell’andarsene nel buio dei cortili, 2010), tanto che in alcuni versi di Incontri e agguati (2015) l’io lirico poteva addirittura specchiarsi in un’immagine di fragilità tutto sommato sconosciuta, in precedenza, a De Angelis: quella di «un povero fiore di fiume / che si è aggrappato alla poesia».
La meditatio mortis che si avvia con Tema dell’addio e che, pur con i suoi anticipi lungo il percorso, è forse la radice quadrata degli ultimi quindici anni della poesia deangelisiana, raggiunge con Linea intera, linea spezzata una stazione ulteriore. Torna anche qui, come si è visto, la forma dell’incontro, che occupa la terza fra le quattro sezioni che compongono il libro, Dialoghi con le ore contate. Mentre il tempo si assottiglia, l’io vaga fra luoghi magari marginali, ma che ha bisogno di determinare concretamente (un paese «chiamato Ricadone» tra Monferrato e Liguria, il parco delle Cave, via Porpora, il parco della Rimembranza, ecc.): come se, obbedendo al loro «oscuro richiamo», il soggetto dovesse anche accertarsi della loro sopravvivenza, e ricevere un «messaggio» definitivo, che il luogo stesso deve consegnare tramite degli emissari: un antico amore, un amico, il «primo allenatore» della propria infanzia, un vecchio «compagno» (non si è sopito, in De Angelis, il fastidio per ogni politicizzazione della poesia, che resta solo «un luogo tremendo e solitario», assoluto, al riparo da ogni mediocrità ideologica, come in una poesia che sembra anche la riscrittura di una lirica degli Strumenti umani sereniani, Un sogno, ma con un tanto di implacabile nettezza sconosciuta a quel Sereni).
Incontri e dialoghi contengono da sempre, in questi versi, un destino per l’io (è quasi inevitabile scomodare questa parola-emblema, che campeggia in un suo titolo del 1982, Poesia e destino). Ma in questo caso si potrebbe citare, per specificare meglio la natura di queste retrouvailles, quel che dice un personaggio del suo amato Pavese, nei Dialoghi con Leucò: l’incontro ha il risultato di «dare un nome di ricordo al destino».
È vero, come si legge nel risvolto di copertina, che qui dentro si mostra un intento di «coinvolgimento comunicativo» verso il lettore. Si nominano esplicitamente, per esempio, una serie di autori o testi importanti per l’autore (La luna e i falò, o Gottfried Benn, o Meriggiare pallido e assorto), il che non è usuale nelle raccolte precedenti: De Angelis è spesso un poeta armato, poco disponibile a lasciar trapelare amichevolmente, per esempio, allusioni o intertesti. Ma la comunicatività è anche l’esito di una scelta formale che inclina, almeno in parte, verso la «prosa». Da questo punto di vista, la pietra di paragone più utile è uno dei risultati più alti di De Angelis, cioè Biografia sommaria. Ed è peraltro interessante notare che, come in Biografia sommaria, chi scrive torna a titolare ciascuna poesia, come a voler dare qualche contorno in più al singolo testo, facendone in certo modo una «storia» autonoma (il che non accadeva negli ultimi tre libri, con il loro andamento poematico, con la breve eccezione delle Canzoncine, su cui si chiudeva il già richiamato Quell’andarsene…). Nella raccolta del 1999, tuttavia, quel che riscattava l’orizzontalità e la maggiore affabilità della scrittura era l’impiego incantatorio dei suoni, che si appoggiavano spesso alla rotondità materna della rima («che sia infantile come una rima», dice un verso della stessa Biografia). In Linea intera, linea spezzata difficilmente si torna alle rassicurazioni dell’infanzia, così come non intervengono rime a colorare il verso. La malinconia che si insinua nel libro è anche un frutto stilistico: il late style deangelisiano predilige, insomma, il bianco e nero. È una metafora che si può ben usare: una fra le liriche più intense, incentrata stavolta sul ricordo della madre, rivela sin dal titolo il proprio debito con Michelangelo Antonioni (Un film chiamato ‘Il grido’). Un film che si conclude con il suicidio del protagonista, tema che non a caso è il Leit-motiv dell’ultima sezione, mentre il cinema è uno dei luoghi battuti dall’io nei suoi viaggi notturni, il che porta inevitabilmente con sé una forte carica di nostalgia per «la parola Novecento». Maestro di addii, assediato dal senso della fine, De Angelis sa però bene, d’altra parte, che la poesia non è (soltanto) soggetta al tempo, ma sa comunque durare, continua ad accompagnarci: «Sì, fratellino, sorrido: questo è stato il mio tempo, / un tempo di dischetti e figurine, e qui resterò per sempre».