Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, pochi ebbero il coraggio e la forza di affrontare le vittime e i boia, l’indicibile sofferenza e i disumani soprusi del conflitto. C’erano stati cinquanta milioni di morti. Quasi tutti avevano qualcuno da piangere. Molti avevano perso casa e famiglia. Per regolare i conti con i responsabili della guerra ci si limitò ai processi di Norimberga. Si voleva dimenticare e andare avanti, guardando al futuro. Ma alcuni non potevano, non volevano, non dovevano dimenticare. Erano le decine di migliaia di prigionieri inaspettatamente ancora in vita quando, nella fase finale del conflitto, i russi e gli americani liberarono i campi di concentramento.

ERANO GLI EBREI e i rom che ogni giorno, senza requie, avevano sentito il tanfo dei forni crematori, che ogni mattina si erano schierati davanti alle baracche per essere contati e selezionati per continuare a vivere o morire, che avevano rinunciato a ogni speranza, perché sperare non serviva a niente; quelli che i nazisti avevano trasformato in non-uomini ridotti a numeri, derubandoli della loro umanità, il cui unico istinto rimasto era sopravvivere da un giorno all’altro, e spesso nemmeno questo – si pensi ai cosiddetti Muselmänner che si erano arresi e il cui unico indefinito desiderio era essere cancellati per sempre dalla faccia della terra per potersi sottrarre alle insopportabili sofferenze subite.

PER I SOPRAVVISSUTI fu uno choc tornare «a casa» e scoprire che praticamente nessuno era disposto ad ascoltare le loro storie sul peggior crimine contro l’umanità mai perpetrato nella storia. Nonostante l’incontrovertibile documentazione fatta di testimonianze, foto e filmati dei lager, era come se nessuno volesse avere a che vedere con i gracili spettri emaciati che comparivano nelle stazioni e nei centri di raccolta. Ricevevano aiuto e cibo in quanto vittime della guerra, ma l’Olocausto, lo sterminio sistematico su scala industriale di diversi gruppi etnici, e in primo luogo degli ebrei, sembrava troppo orribile per essere vero. Neppure gli ebrei che avevano trovato rifugio in Inghilterra, in Svezia e negli Usa, o che erano sfuggiti ai nazisti in qualche nascondiglio in giro per l’Europa, erano sempre disposti ad ascoltare i racconti dei sopravvissuti.
Quando l’alter ego di Imre Kertész in Essere senza destino torna dai lager nella sua città e cerca di raccontare ciò che ha vissuto ai conoscenti ebrei si sente rispondere che «anche qui a casa» non era stato «facile».

MOLTI DEGLI STUDIOSI che si sono occupati di quella che nel tempo ha assunto il nome di «letteratura dell’Olocausto» hanno parlato di una sorta di tabù che dopo la guerra impediva di pubblicare e diffondere le testimonianze sui lager e in particolare sui campi di sterminio, cioè Auschwitz, Treblinka e Birkenau.

Primo Levi subì come noto il rifiuto di Einaudi la prima volta che inviò il manoscritto di Se questo è un uomo. Altri ebbero esperienze simili. (…) Fu solo all’inizio degli anni Sessanta che venne meno il tabù sui racconti dell’Olocausto.
Una delle cause che vi contribuì fu il processo a Eichmann, nel 1961, quanto il mondo fu messo a parte della terribile verità attraverso le testimonianze trasmesse dalla televisione e dalla radio e riportate dalla stampa. (…).

Da quel momento in poi fu impossibile dichiarare di non sapere dell’Olocausto. Una volta aperte le cataratte, fu come se l’onda di testimonianze e studi storici non potesse più fermarsi. E così fino a oggi. Una recente pubblicazione, The Bloomsbury Companion to Holocaust Literature, enumera migliaia di articoli e libri.

Degno di nota è tuttavia il fatto che, tra questi innumerevoli scritti, non si trovi quasi nessun esempio di vera e propria finzione letteraria, che si tratti di poesia, drammaturgia o romanzi. Sembra quasi che il tabù che riguardava la letteratura dell’Olocausto in generale sia rimasto intatto per la narrativa e, in particolare, per il romanzo. Pochissimi romanzieri si sono azzardati a rappresentare la vita – ammesso che sia la parola giusta, nel contesto – dietro il filo spinato, all’ombra delle torrette di guardia e nelle baracche, per non parlare delle camere a gas.

UN TITOLO SPESSO nominato come raro esempio di romanzo dell’Olocausto è La scelta di Sophie di William Styron. Uscito nel 1979, riscosse grande attenzione e diventò un bestseller. Al centro della vicenda c’è Sophie, una polacca sopravvissuta ad Auschwitz, dove era stata deportata per aver fatto acquisti al mercato nero. Dopo la guerra, Sophie arriva a New York e si innamora di un ebreo, Nathan, che la aiuta a tornare alla vita non soltanto dandole da mangiare ma anche, per esempio, facendo in modo che possa avere una dentiera dopo aver perso i denti nel lager.

Tra i due nasce un’appassionata storia d’amore che tuttavia degenera a causa degli accessi d’ira e del comportamento violento di Nathan. Stingo, la voce narrante, e con lui il lettore, sono portati a pensare che gli accessi di Nathan abbiano a che vedere con il fatto che Sophie è polacca e che lui, in quanto ebreo, le rimproveri di essere sopravvissuta, a differenza dei sei milioni di rappresentanti del suo popolo che sono stati uccisi. Ma verso la fine del romanzo si capisce che il segreto di Sophie è un altro, e cioè che ad Auschwitz è stata costretta a scegliere chi tra i suoi due figli avrebbe avuto la possibilità – forse – di sopravvivere e chi sarebbe stato mandato a morire nella camera a gas.

Con questo si deve trarre la conclusione che La scelta di Sophie in realtà non tratta dell’Olocausto, se non come una sorta di contesto generale. Tra Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson e La scelta di Sophie di Styron esistono alcuni punti di contatto. Sia Miriam che Sophie convivono con un terribile segreto che non possono svelare, anche se nel caso della prima si tratta di un segreto che è riuscita a conservare per più di sessant’anni mentre Sophie svela il proprio a Stingo dopo un anno soltanto. Nessuna delle due è ebrea, anche se gli amici e familiari di Miriam sono convinti che lo sia. Nessuna delle due nasconde di essere sopravvissuta rispettivamente ad Auschwitz e Ravensbrück e nessuna delle due vuole parlare delle proprie esperienze.

MA QUI SI FERMANO le somiglianze. Il segreto di Miriam è di carattere completamente diverso da quello di Sophie: in realtà è una rom e il suo vero nome è Malika. La scelta di assumere l’identità di un’ebrea è dettata dalla paura e avviene nello spazio di un attimo, ma è comunque sua. (…)

Paradossalmente, l’Olocausto ha reso in parte più facile dopo la guerra essere ebreo; l’antisemitismo è costretto a ritirarsi nelle cantine razziste in cui era germogliato. I rom, invece, non godono dello status di vittime dei nazisti riconosciuto agli ebrei e continuano nella maggior parte dei casi a essere considerati feccia e rifiuti della società. Per questo è comprensibile che nel primo periodo in Svezia Miriam continui a farsi passare per ebrea, anche se a tratti soffre di dover fingere e mentire.

Purtroppo, per lei e per il suo futuro, finisce poi a Jönköping, dove viveva una minoranza piuttosto numerosa di rom, o tattare, vagabondi, come venivano chiamati in senso dispregiativo. Io che sono cresciuto in quella città negli anni Sessanta ricordo ancora che il termine era un insulto. Ricordo anche che la maggior parte dei tattare abitava a Öster, e che quel quartiere aveva una pessima reputazione.

QUELLO CHE NON SAPEVO, ma che ho scoperto e studiato in seguito, è che alla fine degli anni Quaranta a Jönköping c’erano stati dei disordini perché gruppi di uomini «svedesi» si erano armati di bastoni e coltelli per cacciare i tattare dalla città. Pulizia etnica, né più né meno. Che i rom erano stati condannati allo sterminio da Hitler e dai suoi tirapiedi, probabilmente, non lo sapeva nessuno… o forse, purtroppo, nessuno se ne curava. (…)

Majgull Axelsson evita di cadere sia nell’assunto spesso ribadito che il destino degli ebrei è stato ed è assolutamente unico, sia nella tentazione opposta di sostenere che «altri se la passavano altrettanto male». Un difficile esercizio d’equilibrio sulla lama del rasoio che questa scrittrice padroneggia a pieno.

 

Scheda

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Majgull Axelsson (1947), scrittrice, drammaturga e giornalista, sarà in Italia tra il 12 e il 16 novembre, al Pisa Book Festival, alla libreria Verso di Milano e al Circolo dei Lettori di Torino. Dopo aver condotto inchieste su prostituzione infantile e povertà in Svezia, ha esordito nella narrativa, coniugando l’attenzione per le ingiustizie e per le condizioni di disagio materiale ed esistenziale. È cresciuta a Nässjö, dove si svolge parte della vicenda narrata in «Io non mi chiamo Miriam» (Iperborea, pp.576, euro 19,50). Dando voce e corpo a una donna non ebrea che ha vissuto sulla propria pelle l’Olocausto, Axelsson affronta il destino poco noto del popolo rom, che tentò di ribellarsi, con ogni mezzo, alla ferocia delle Ss di Auschwitz.