La sostituzione di Domenico Arcuri con il generale Figliuolo nel ruolo di commissario straordinario è, nei piani del governo Draghi, il primo passo verso un’ulteriore revisione del piano strategico vaccinale. Il piano aveva ben poco di “strategico”, se dal 2 gennaio in cui è stato approvato ha subito così tanti aggiornamenti. L’ultima versione è del 12 febbraio, sulla base dei nuovi dati sulle dosi di vaccino prenotate dal nostro paese. Basta guardare quella tabella, già molto ottimista di suo, per capire che la promessa del governo Draghi di arrivare a 500 mila vaccinazioni al giorno a 19 milioni di vaccinazioni al mese è destinata a fallire.

LA RAGIONE PRINCIPALE è la disponibilità delle dosi. Le aziende farmaceutiche hanno venduto un numero di dosi superiore a quello che potevano consegnare. Secondo il piano, oggi avremmo dovuto superare i dieci milioni di dosi consegnate. Invece, secondo i dati forniti dal governo finora ne sono arrivate 6 milioni, il 40% in meno del previsto.

L’obiettivo fissato da Draghi non sarebbe raggiungibile nemmeno se, miracolosamente, le aziende mantenessero gli impegni del secondo trimestre. Le dosi attese in quel periodo sono infatti 52 milioni, cioè 17 milioni al mese. Quindi, per onorare l’impegno, Draghi dovrebbe ottenere un numero di dosi superiori persino a quelle acquistate sulla carta. Quella cifra, tra l’altro, include oltre 14 milioni di dosi di vaccini che non sono ancora stati approvati. Si tratta di quelli prodotti dalla CureVac e dalla Johnson&Johnson (7,3 milioni di dosi promesse da aprile a giugno per ciascuna azienda).

Il vaccino tedesco CureVac, basato sul mRna come Pfizer e Moderna, è ancora in fase di test. L’Agenzia Europea del Farmaco (Ema) ha già iniziato a esaminare i dati pre-clinici del dossier, ma una data per il parere definitivo non c’è. Per il secondo, invece, potrebbe essere questione di poche settimane. Il vaccino è stato già approvato in via emergenziale dalla Food and Drug Administration statunitense. L’Ema conta di valutarlo entro la metà di marzo. Si tratta di un vaccino a “vettore virale” della stessa tipologia dei vaccini prodotti dalla AstraZeneca, dall’istituto russo Gamaleya (lo “Sputnik V”) e dalla Reithera di Castelromano. Questi vaccini sfruttano un virus innocuo (un adenovirus umano per Johnson & Johnson, di scimpanzé per AstraZeneca e di gorilla per Reithera) per trasportare l’informazione genetica all’interno delle cellule e indurre la produzione della proteina “Spike” del coronavirus. In questo modo, il sistema immunitario impara a riconoscerla e a sviluppare gli anticorpi utili anche contro il Sars-CoV-2 tutto intero.

Sul vaccino J&J Draghi punta molto. A differenza degli altri richiede un’unica dose. Ciò dovrebbe facilitare le operazioni e permettere di somministrare tutte le dosi a disposizione man mano che arriveranno. I sei milioni di vaccini consegnati fin qui, infatti, sono rimasti in parte inutilizzati a causa dell’incertezza negli approvvigionamenti. I vaccini a due dosi obbligano le regioni a tenere da parte una quota di fiale per chi deve completare il ciclo vaccinale.

Risultato: finora sono state somministrate solo 4,3 milioni di dosi, il 30% in meno rispetto alle consegne. Per questo oggi si discute sull’opportunità di somministrare una sola dose a un numero maggiore di persone, invece di risparmiare sulle vaccinazioni per garantire i richiami. I dati sull’immunità raccolti nei test clinici lo sconsigliano. Al contrario, quelli registrati durante le campagne vaccinali nel Regno Unito e in Israele mostrano che anche una dose è efficace a un mese di distanza. Ma non forniscono dati sulla permanenza dell’immunità acquisita senza la seconda dose.

LE DOSI RIMASTE “in pancia” alle regioni sono sopratutto quelle vendute da AstraZeneca. L’azienda finora ha consegnato 1,5 milioni di dosi, le regioni ne hanno somministrate solo 230 mila (il 15%) tra personale scolastico e universitario e forze armate. Le ragioni del ritardo sono molteplici. Prima di aprire le prenotazioni molte regioni hanno preferito aspettare il parere dell’Agenzia Italiana del Farmaco, che solo in un secondo tempo ha autorizzato la somministrazione del vaccino fino a 65 anni di età. Superare le differenze tra le regioni nelle vaccinazioni è un altro degli obiettivi strategici di Draghi. Aver chiamato un militare a occuparsene significa togliere potere discrezionale agli enti locali e affidarsi a un apparato governato dal centro, benché con poca esperienza in materia di campagne vaccinali.