A sorpresa Draghi convoca i giornalisti, subito dopo la fine della cabina di regia. La conferenza stampa non è a tutto campo, quando gli parlano d’immigrazione il premier ignora semplicemente la domanda. Ma neppure si limita all’argomento del giorno, lo stato delle chiusure. Mette sul tavolo con tanto di dettagli la riunione del Consiglio europeo di giovedì e il tema collegato dei vaccini e del blocco dell’export. Parla agli italiani, seppellendo così le affrettate critiche sul presidente del consiglio «poco comunicativo», ma si rivolge all’Europa in veste non solo di capo del governo italiano ma anche e forse soprattutto di elemento centrale della leadership dell’Unione. E in fondo lo scarto tra lui e tutti gli altri predecessori è proprio questo.

Sul blocco dell’export Draghi conferma la linea dura e apprezza l’ulteriore stretta decisa a Bruxelles. Il blocco non sarà più possibile solo in caso di inadempienza. Bisognerà considerare anche i criteri di reciprocità, se il Paese destinatario permette o no l’export, e quello «più sottile» di proporzionalità. Se un Paese è già molto avanti con la vaccinazione si potrà bloccare l’esportazione. Il riferimento all’Uk sembra evidente Ma senza vagheggiare blocchi totali o cause legali nei confronti del Regno Unito: «Sono contrario. Poi, restare in tribunale per decidere se i vaccini prodotti nell’Unione sono più inglesi o più europei vorrebbe dire tenere i vaccini fermi per anni. Meglio trovare un accordo e così sarà». Più duro e sbrigativo quando si parla della richiesta austriaca di rivedere la distribuzione tra i vari Paesi europei: «Noi e la Germania abbiamo detto di no». Tutt’altra musica con Big Pharma: «Il blocco va considerato con le società che non rispettano i patti». Con quelle, in particolare con AstraZeneca pur senza citarla, Draghi adopera parole durissime: «Si ha l’impressione che qualcuno abbia venduto gli stessi vaccini due o tre volte». Un po’ alla Totò truffa, e nel pieno di una pandemia che miete centinaia di migliaia di vittime non è un’accusa leggera.

Inutile cercare di strappare al premier critiche rivolte alla Commissione europea per la gestione dei contratti: svicola ricordando che «col senno di poi» le cose sono sempre facili. E’ anche questa una conseguenza diretta del suo essere leader europeo. La polemica a uso interno non lo interessa. Mira piuttosto a raggiungere pragmaticamente l’obiettivo che si era riproposto e che aveva proposto, in questo caso la produzione europea dei vaccini: «L’importante non è il blocco dell’export ma la produzione. Solo così si potrà vincere la paura». La stessa minaccia, confermata, di «fare da soli» ove la Ue non si muovesse non è un esercizio di sovranismo ma un pungolo per indirizzare Bruxelles. Tanto più che per il verdetto Ema su Sputnik ci vorranno mesi e in ogni caso la capacità produttiva russa è limitata. L’Italia, invece, sarà in grado di iniziare a produrre entro 3 o 4 mesi. Del resto l’entusiasmo col quale il premier italiano parla della scelta di Biden di tornare a considerare l’Europa partner privilegiato non lascia dubbi sulle intenzioni dell’Italia e della Ue.

Il prossimo scostamento di bilancio, con decreto di sostegno immediatamente successivo, arriverà insieme al Def a metà aprile. Draghi non quantifica: «Non diamo mica cifre per vedere l’effetto che fa. Bisogna capire cosa serve». Ma già che si parla di investimenti Draghi torna a rivolgersi all’Europa oltre che all’Italia: «Una politica economica ben disegnata nei prossimi 6 mesi è fondamentale, per sostenere imprese e famiglie e poi per spostarsi sempre più verso investimenti la cui composizione sarà essenziale. Quindi occorre mantenere una politica fiscale espansiva». Il debito dovrà essere consentito ancora a lungo.

Sulla sua proposta di eurobond il capo del governo italiano si lancia in una vera e propria lezione. Segnala che la preoccupazione comune a tutta l’Europa è l’importanza nettamente minore dell’euro rispetto al dollaro. Ma il dollaro deve quell’importanza al fatto che i titoli del suo debito pubblico sono merce corrente su tutti i mercati, quelli dei singoli Paesi europei invece no. Dunque il bilancio comune, gli eurobond e anche una fiscalità comune («Quando sarà possibile e ci vorranno generazioni») non sono nell’interesse di alcuni Paesi europei a detrimento di altri. Sono essenziali per tutti”. Quello che parla è un premier italiano ma che ambisce a occupare domani nella Ue un ruolo specifico: quello che oggi ricopre Angela Merkel.