Sono trascorsi due anni dal venerdì nero di Codogno, anche se sembrano molti di più. C’è stato un «prima», ormai lontanissimo. E poi un «durante», eterno. Il «dopo» sembra non essere mai cominciato. Eppure, in questi due anni ne sono successe di cose. Tanto che c’è un «prima» e un «dopo» anche dentro la pandemia. Il «prima» è la paura delle ondate del 2020 affrontate a mani nude, le dirette notturne di Conte col maglione di emergenza e le infermiere che crollano esauste. Il «dopo» coincide quasi perfettamente con l’era di Mario Draghi, insediatosi a Palazzo Chigi il 13 febbraio 2021. Al suo esordio, l’ex direttore della Bce aveva sottolineato le discontinuità più che le cesure a partire dalla conferma di Speranza al ministero della Salute e il sostegno alla linea della prudenza. L’arrivo dei vaccini, però, ha coinciso con uno scarto. Invece del tributo di vite umane e della tenuta del servizio sanitario, Draghi ha messo al centro della sua azione altre due priorità: la fine delle restrizioni alle attività economiche e del ricorso alla didattica a distanza, con le sue conseguenze sui tempi della famiglia e del lavoro di milioni di italiani.

NELLA SEQUENZA DI LEGGI, decreti e circolari spesso confuse e contraddittorie emanate dal governo Draghi, questi due paletti hanno rappresentato la rotta da seguire a ogni costo. Anche quando le ondate virali, che non si sono fermate durante il governo Draghi, suggerivano rapide sterzate. Fissate queste variabili indipendenti, il resto dell’equazione ha dovuto adattarsi.

Nell’anno del Migliore, il ruolo degli esperti della salute è stato fortemente ridimensionato. In parte, si tratta di un’evoluzione naturale: oggi sappiamo molto di più sul virus e l’assistenza degli esperti è meno indispensabile nel calcolo delle conseguenze dei provvedimenti. Ma è stata una scommessa soprattutto politica.

IL COMITATO TECNICO SCIENTIFICO, ridisegnato con nuovi ingressi graditi alla Lega, non è stato più consultato prima delle tante decisioni prese in merito alla pandemia. Rispetto alle 154 convocazioni del Cts dell’era-Conte, Draghi vi ha fatto ricorso meno della metà delle volte. Su molte decisioni-chiave relative alla prevenzione epidemiologica, come il progressivo smantellamento delle zone a colori o l’introduzione dell’obbligo vaccinale, il Cts si è limitato a prendere atto di scelte già compiute. Le poche volte in cui i tecnici si sono mossi in proprio, Draghi si è fatto sentire. Quando una circolare dei ministeri di Salute e Istruzione ha ripristinato la Dad per l’impossibilità delle Asl di monitorare il contagio, il direttore della prevenzione (e membro del Cts) Gianni Rezza è stato costretto a rimangiarsi la circolare e firmarne un’altra dettata dal premier nel giro di poche ore.

Lo stesso ministro Speranza, uno dei più influenti durante il governo Conte, oggi è relegato a comprimario.

Draghi però non ha semplicemente eliminato le restrizioni puntando sull’immunità di gregge, come hanno fatto Regno Unito e Svezia. Le aperture di Draghi si sono accompagnate a restrizioni sui non vaccinati sempre più rigide, dal green pass al super green pass fino all’obbligo vaccinale per gli over 50. Il pass è stato presentato dal premier come «una misura con cui i cittadini possono continuare a svolgere attività con la garanzia di ritrovarsi tra persone che non sono contagiose». Con un doppio risultato: far apparire superflue le altre strategie di prevenzione – come il distanziamento in ambito scolastico e lo smart working per i lavoratori – e additare i non vaccinati alla condanna della pubblica opinione, legittimandone la discriminazione. In realtà, l’obbligo di green pass si è mostrato meno efficace del previsto sia nel limitare il contagio che nell’incentivare la vaccinazione, che senza green pass aveva comunque raggiunto livelli elevatissimi. Anche sotto Draghi, l’Italia è stato il paese dell’Ue con il maggior numero di vittime per Covid-19, quasi 60 mila in un anno.

DI QUESTO FALLIMENTO il premier non ha voluto prendere atto, perché avrebbe reso necessari investimenti su sanità, scuola e trasporti pubblici, ritenuti improduttivi per un governo che punta tutto sul Pil. Anche per la salute, il Pnrr non è partito bene. La riforma della medicina di base è impantanata nelle schermaglie tra le corporazioni e persino la disastrosa sanità lombarda è stata ridisegnata senza intaccare lo strapotere dei privati. Ripresa e resilienza per ora non si vedono.