Quando nel 1973 scoppiò l’ultimo focolaio di colera in Italia, la forza militare di stanza a Napoli partecipò alle operazioni per far fronte all’emergenza sanitaria. «Il vaccino contro il colera – si legge in un resoconto militare dell’epoca – non rappresenta la prima linea di difesa contro un’epidemia di colera». Tuttavia, «la gente di Napoli esercitò una pressione fortissima sulle autorità sanitarie affinché fosse organizzata una campagna di vaccinazione di massa, mentre le autorità cercavano di mettere in atto misure di controllo più efficaci ma meno visibili». In quattro giorni, furono vaccinati tra il 50 e l’80% degli abitanti della città, spegnendo un’epidemia che a Napoli riguardò solo 119 casi. Le fake news circolavano già: ne fece le spese il giovane Paolo Cirino Pomicino, che da assessore ai cimiteri fu accusato di aver nascosto le salme per ridimensionare l’allarme.

Contro il Covid-19, i No Vax di oggi usano gli argomenti dei medici di ieri – «ci serve altro, non il vaccino» – e viceversa, a conferma di quanto sia cambiata la percezione del rischio da vaccinazione. Se ne avvantaggia la retorica degli oppositori al “green pass”, un obbligo vaccinale di fatto che imporrebbe alla popolazione la partecipazione a una “sperimentazione di massa”. Effettivamente, se il “green pass” diventerà necessario per lavorare, possederlo diventerà quasi un obbligo. Ma parlare di sperimentazione di massa è quantomeno esagerato. Innanzitutto, i vaccini anti-Covid sono stati sperimentati in diverse fasi iniziate già nel febbraio del 2020. Prima su modelli animali, in seguito su pochi volontari umani (fase 1), poi su alcune centinaia per individuare il dosaggio corretto (fase 2), e infine su molte migliaia nella fase 3. Questa è di gran lunga quella più importante per accertare l’efficacia e la sicurezza dei vaccini.

Secondo i dati di clinicaltrials.gov, la fase 3 del vaccino Pfizer ha coinvolto nel mondo circa 44 mila volontari adulti tra vaccino e placebo, 4500 bambini sotto i 12 anni, 700 donne in gravidanza e centinaia di pazienti. Lo studio clinico principale del vaccino Moderna ha riguardato oltre 30 mila partecipanti, che arrivano a 41 mila contando anche adolescenti e bambini coinvolti in un secondo tempo. I test di AstraZeneca hanno coinvolto circa 60 mila partecipanti in tutto il mondo, e oltre 70 mila quelli di Johnson & Johnson. I vaccini adottati in Europa e Usa, dunque, sono stati testati complessivamente su quasi duecentomila persone prima dell’approvazione. Non pochissimi.

I dubbiosi segnalano come i tempi siano stati un po’ troppo ristretti per rispettare il rigore necessario. In effetti, in tempi pre-Covid il tempo necessario allo sviluppo di un vaccino era di circa dieci anni. L’accelerazione però non si spiega con la minore accuratezza scientifica. Innanzitutto, le operazioni sono state velocizzate dal contagio stesso. In uno studio clinico, la protezione del vaccino si misura studiando come si è distribuito un numero fissato di contagi tra il gruppo dei vaccinati e quello del placebo. La circolazione del virus ha permesso di raccogliere questi dati molto rapidamente. Con altre malattie, come l’Hiv, per ottenere la stessa affidabilità statistica sono necessari quattro o cinque anni, come ha verificato l’ultimo trial (appena fallito) iniziato in Sudafrica nel 2016.

Inoltre, come spiega lo storico della medicina Gilberto Corbellini, «per la ricerca di un vaccino contro il Covid si sono sveltite molte procedure burocratiche, svolgendo la fase 3 parallelamente alla fase 2 mentre spesso trascorrono anni tra una fase e l’altra». Si sono adottati – aggiunge – strumenti statistici più efficienti che in passato per stabilire efficacia e sicurezza del vaccino a partire dai dati. «Gli studi sul Covid – conclude Corbellini – sono probabilmente destinati a cambiare per sempre gli standard di questo tipo di ricerche, portandoli a una maggiore accuratezza scientifica».

In realtà, paragonare i test di sicurezza dei vaccini tradizionali con quelli odierni è praticamente impossibile per diverse ragioni. Gran parte della ricerca sui vaccini in passato ha riguardato quelli infantili con “sperimentazioni di massa” che probabilmente oggi non supererebbero le barriere poste dalla bioetica. Si pensi al vaccino anti-poliomelite dello statunitense (nato in Russia) Albert Sabin: dopo un primo test su trenta detenuti in Ohio, nel 1959 fu provato in Urss su dieci milioni di bambini, che non ebbero alcuna scelta.

La sicurezza dei vaccini odierni, inoltre, si basa su sistemi di farmacovigilanza – cioè sulla raccolta di dati sulle reazioni avverse – attivi anche dopo l’introduzione del vaccino, che non esistevano fino a pochissimi decenni fa. Perciò, ne sappiamo molto di più sulle reazioni associate a un vaccino odierno rispetto a quanto fosse noto negli anni ‘60 e ‘70, quando furono introdotti diversi vaccini ancora utilizzati.

Persino per gli esperti non è facile stabilire il bilancio tra costi e benefici di un vaccino solo sulla base dei numeri. Il vaccino AstraZeneca, ad esempio, in molti Paesi (Italia compresa) è sconsigliato nei giovani in quanto il rischio di sviluppare reazioni potenzialmente fatali è superiore a quello di finire in terapia intensiva a causa del Covid-19, una posizione difesa dallo stesso Corbellini. Per quanto riguarda la poliomelite, la gran parte dei neonati continua ad essere vaccinata nonostante da anni ormai gli unici casi di poliomelite, fuori da Afghanistan e Pakistan, siano legati alle vaccinazioni con il virus vivo. In questo caso, l’obiettivo dell’eradicazione ormai a portata di mano fa pendere l’ago del bilancio tra costi e benefici a favore del vaccino, nonostante vi siano alternative più sicure ma meno adatte a spegnere i focolai. Tenendo conto del contesto in cui sono svolte le ricerche di ieri e di oggi, la tesi della sperimentazione di massa è dunque difficilmente sostenibile. Ma, per converso, questo significa che nemmeno i No Vax potranno essere convinti solo sulla base dei numeri.