Quante storie possono entrare negli ambienti angusti di una vecchia casa di legno a Long Island City? Tante – tantissime – quanti sono i personaggi che Tony Vaccaro (all’anagrafe Michelantonio Celestino Onofrio), nato a Greensburg, Pennsylvania nel 1922, ha ritratto in oltre settant’anni di professione. «Ero un ragazzo che voleva vedere la sorgente di tutte le cose», afferma il fotografo. Disordine creativo e quotidianità sono compagni di lunga data al primo piano di Avenue 27 a Long Island City. Nella cucina-soggiorno attraversata dal filo per stendere i panni vive anche l’anziana sorella Assunta, intenta a sfogliare le riviste. Gloria, l’altra sorella, è scomparsa da tempo, ma a ricordarla c’è un bel ritratto non troppo distante dal mandolino che Tony ricevette in dono dal padre nel ’26, quando era ancora un bambino.

La musica è sempre stata una grande passione, come indicano gli scaffali pieni di 33 giri. Il fotografo prende il primo disco che gli capita: Glenn Miller and his orchestra. «Ho fotografato anche lui!». Alla camera oscura si accede attraverso l’archivio che segue un ordine preciso: da una parte i negativi, dall’altra i positivi raccolti in cartelle sul cui dorso sono indicati i soggetti (qualcuno a caso: Nasser, Givency, Leonard Bernstein, Marcel Marceau, Sophia Loren, Sommerset Maugham, Paolo Soleri, Jean Renoir, Anita Ekberg, Peggy Guggenheim, Federico Fellini, William de Kooning), poi i raccoglitori con la corrispondenza e quelli con i notebooks: sacro come una reliquia l’ingranditore Omega 5. Quanto alle macchine fotografiche allineate sul mobile: si parte dalla prima che regalò a Tony un suo cugino negli anni Trenta, per arrivare alla Leica e alle macchine digitali più sofisticate, perché la curiosità di ritrarre il mondo che lo circonda continua ad essere viva nel fotografo, che ama scattare immagini anche con il cellulare.

Alle pareti altre tracce di amicizie profonde che attraversano il tempo: opere di Alberto Burri, Enrico Donati, Ben Shahn, José Ortega e c’è anche la celebre fotografia di Arthur Rothstein The bleached skull of a steer on the dry sun-baked earth of the South Dakota Badlands, scattata nel 1936 per la Farm Security Administration. Per vedere le foto di Tony stampate in grande formato, invece, bisogna fare due passi e girare in Vernon Boulevard, dove c’è il ristorante italiano Manducatis Rustica, che è una sorta di studio per il fotografo che qui scrive, telefona e incontra amici e colleghi davanti ai ritratti a lui familiari di Picasso, Max Ernst, Marcel Duchamp…

Ma torniamo alla casa di legno dove Vaccaro abita dal 1985, prima di sederci e continuare la conversazione in maniera più sistematica lui tira fuori una manciata di diapositive a colori, quelle a cui è più legato. La prima è stata scattata in un momento di pausa, durante le riprese di Medea con Pasolini che parla con Maria Callas e, accanto a loro, il produttore Franco Rossellini. In altre, invece, si scorge una giovane donna bellissima, Anja Kyllikki Lehto, che nei primi anni ’60 era la top model di Marimekko. «Anja my love», ha scritto il fotografo sul telaietto della diapositiva. È pochissimo che è morta la sua amata moglie e madre dei suoi due figli Francis e David.

Tanti ricordi, altrettante avventure ci sono dietro ogni scatto, ma anche molta progettualità: intanto, che questo edificio possa diventare presto il museo dedicato al suo lavoro, come il Museo di Noguchi che è in questo stesso quartiere di Queens. Poi, forse, quando Tony deciderà di «andare in pensione», trasferirsi a Bonefro, la terra dei suoi avi, nel verde della campagna molisana. «Ma c’è ancora tempo – precisa subito – perché la mia è una famiglia molto longeva. Potrei vivere fino a 100, 110 anni!». Ne è convinto, da quando ha trovato la ricetta giusta per vivere meglio: due dita di vino rosso ogni sera prima di andare a dormire e, ogni mattina, un pezzo di cioccolata.

È nato negli Stati Uniti, ma dall’età di 3 anni fino all’adolescenza ha vissuto a Bonefro, in Molise – la terra dei suoi genitori – per tornare poi in America. Richiamato alle armi ha partecipare allo sbarco in Normandia, che ha documentato con i suoi noti scatti, come «Il bacio della liberazione». Quando ha avuto la consapevolezza che avrebbe fatto il fotografo?

Mia madre morì neanche un anno dopo che tornammo a Bonefro e mio padre nel ’28, per cui rimasi orfano molto presto. La mia prima macchina fotografica mi fu regalata da un mio cugino nel 1930, quando lui compiuti i 18 anni dovette fare il servizio militare. Cominciai a scattare le mie prime foto con quella macchina che conservo ancora, poi ne cambiai molte fino ad arrivare alla Nikon con cui ho fatto la seconda guerra mondiale. Ma andiamo per ordine: quando nel 1939 Hitler invase la Polonia decisi che sarei dovuto tornare in America, perché avevo paura che l’Italia mi richiamasse sotto le armi a fare una guerra in cui non credevo. Avevo 15 o 16 anni, e andai a Roma per fare il passaporto, ma per avere i documenti avrei dovuto aspettare almeno una settimana, così decisi di gironzolare per la città. Visitai i Musei Vaticani e lì rimasi colpito dal torso di una scultura greca, tanto che decisi che avrei seguito quella strada. Quando tornai in America cominciai a realizzare sculture. Nel 1941 scolpii in bronzo il busto di Lincoln, l’americano che mi è sempre stato più caro, e anche quelli di Franklin, Washington e altri personaggi. Erano gli anni in cui frequentavo la scuola superiore di New Rochelle e ci fu uno studente geloso che distrusse con un coltello tutte le mie teste di creta. La testa di Lincoln si salvò solo perché l’avevo portata a casa per farla vedere alle mie due sorelle. A scuola venne poi annunciata, per l’anno successivo, una nuova iniziativa, il club di fotografia. In quel momento mi si accese una lampadina!

Afro, Burri, de Kooning… ha ritratto moltissimi artisti e con molti di loro è nata un’amicizia profonda, nutrita da incontri e scambi epistolari. Qual è stato l’incontro più significativo?

Enrico Donati è stata una persona che mi ha dato tantissimo e mi ha fatto conoscere molti altri artisti. Mi fu presentato da una grande donna, Fleur Cowles, fondatrice nel 1950 della rivista Flair. Ma prima di parlare di questo incontro devo specificare che quando tornai in America, dopo essere rimasto per quattro anni in Germania, come civile, alla fine della guerra, ho voluto visitare quel paese che non conoscev[/VINT_RISPOST]o. Così comprai una vecchia Chevrolet e cominciai a girare per gli Stati Uniti. Andai a San Francisco, Seattle, poi a San Diego dove rimasi per un mese ospite di un mio cugino. Una domenica che mi mandarono a comprare i giornali scoprii la rivista Businessweek, sulla cui copertina c’era il volto di Fleur Cowles e sotto c’era scritto «È questa la più grande editrice di New York?». Osservando meglio quel volto mi dissi che le avessi parlato, lei mi avrebbe potuto dare un buon lavoro. Tornai a New York con quest’idea. A New Rochelle, dove avevo la mia camera oscura, stampai 25 fotografie su carta DuPont nel formato 28×35,5, foto miste – scene, ritratti – con cui volevo mostrare alla signora Flore che la sua rivista sarebbe potuta diventare più bella. Arrivai nella sede di Flair al quattordicesimo piano di 488 Madison Avenue: Look era al dodicesimo. Allora non sapevo che Flair era la figlia di Look magazine, perché l’editore era il marito di Fleur Cowles. Dovevo andare in bagno così lasciai il mio portfolio all’entrata, nel frattempo Fleur arrivò e vedendo il portfolio lo prese e cominciò a guardarlo. Ho ancora quella scatola che mi ha dato lavoro a Flair. Quando rientrai dal bagno la segretaria mi disse che potevo entrare nella sua stanza. Mi presentai, ma era come se ci conoscessimo già. Lei, poi, mi scrisse che ero il suo fotografo preferito e che non avrebbe mai lavorato con nessun altro. Purtroppo la rivista morì dopo pochissimi anni.

Molte storie sono legate anche alla collaborazione con «Life»…

È stato Eugene Smith a dire a Life che ero il miglior fotografo di donne. Ray McCland, il chief editor, mi chiamò dicendo che a New York non avevano bisogno di un fotografo, ma gli serviva che mi trasferissi a Roma per «coprire» il sacro e il profano; il Vaticano e Cinecittà. «È la mia specialità», gli risposi e la settimana dopo, era il ’54, arrivai a Roma dove rimasi fino al ’57. Ogni tanto dovevo fotografare Pio XII, ma il resto del tempo potevo fare altro.

Tra gli innumerevoli incontri con gli artisti avvenuti soprattutto nei loro studi, osservandoli da vicino nella loro quotidianità, particolarmente significativi sono stati quelli con Georgia O’Keeffe in New Mexico e Frank Lloyd Wright a Taliesin, in Arizona, dove rimase per 16 giorni…

Ci sono fotografi che fanno semplicemente un clic, per me è un gesto «filosofico». Fotografare vuol dire trovare qualcosa di molto più che speciale. Ma per ottenere questo risultato bisogna rivolgersi alle persone che hanno fatto, o stanno facendo, qualcosa di «extra special», come Georgia O’Keeffe, Frank Lloyd Wright, Marcel Breuer… L’incontro con la O’Keeffe era stato anticipato dalla lettera di Look: la rivista voleva dedicarle due pagine a colori e avrebbe inviato un suo fotografo. Georgia O’Keeffee rispose dicendo che andava bene, ma che avrebbero dovuto inviare Ansel Adams, Irving Penn o «Dick» Avedon, ma dalla redazione mandarono me. Era il 1960, arrivai a Abiquiu – New Mexico – bussai alla sua porta e mi pr[/V_TXT]esentai. Lei non mi diede né la mano, né alcun tipo di benvenuto, ma si girò e se ne andò nello studio. Io rimasi lì con il mio bagaglio, senza neanche sapere dove avrei alloggiato. Per cinque giorni mangiai tutti i giorni con Georgia O’Keeffe, con me c’era anche una giornalista, Mrs Willard. Per quattro o cinque giorni sedemmo tutti allo stesso tavolo molto lungo, ma l’artista non si voltò verso di me neanche una volta, continuando a rivolgersi soltanto alla giornalista. Poi un giorno, quando stavano parlando di un famoso matador messicano, aprii per la prima volta la bocca. Avevo la sensazione di parlare con il vento, comunque dissi che a Santander, in Spagna, avevo fotografato quello che era considerato il più grande matador, Manolete. Quando O’Keeffee sentii quel nome si girò verso di me e non tornò mai più a voltarsi verso la sua interlocutrice. Da quel momento, per tre giorni, la conversazione fu esclusivamente tra lei e me. Parlammo del mondo intero, della crisi, di ogni cosa e la povera Mrs. Willard tre giorni dopo fece i bagagli e se ne andò. (Ride) Finalmente potei stare da solo con l’artista per altri otto giorni, durante i quali scattai le mie fotografie, sia in bianco e nero che a colori, semplicemente riprendendo quello che faceva quotidianamente.

Tra i circa mille personaggi che ha ritratto c’è anche Gina Lollobrigida che cucinò per lei…

Sì, preparò gli spaghetti e un’insalata che è forse la migliore che abbia mai mangiato in tutta la mia vita. Ma fotografai anche Sophia Loren ai tempi in cui partecipò a Miss Italia, nel 1950, arrivando seconda. Ricordo che feci inviare sia a Sophia che alla vincitrice dodici rose rosse. Un fotografo la vide piangere dietro le quinte: gli aveva confessato che anche era arrivata seconda, Tony Vaccaro aveva mandato le rose solo a lei. Non appena sentii queste parole le inviai un altro mazzo di rose con un biglietto in cui le dicevo che stavo per tornare a New York, ma in qualsiasi momento sarebbe stata la benvenuta sulla mia terrazza. L’anno dopo, mentre stavo facendo la doccia, suonò il campanello della porta, mi avvolsi con un asciugamano e andai ad aprire a piedi nudi. Davanti a me c’era Sophia Loren che dopo un attimo, mi squadrò dall’alto in basso e disse in italiano: «Tony Vaccaro, sempre pronto!». (Ride) Andammo sulla terrazza e la fotografai lì. Una regola che ho sempre seguito era quella di non avere mai relazioni con le bellissime donne che fotografavo, perché le storie amorose distruggono l’amicizia.

Per tornare all’argomento cucina, so che lei è anche un ottimo cuoco. È così?

Sì, mi è sempre piaciuto cucinare. Sono stato io a consigliare a Gianna, la proprietaria del ristorante Manducatis Rustica, molte delle ricette presenti nel menu. Prima di tutto il vitello tonnato, che mangiai per la prima volta a Milano cinquant’anni fa, e che feci conoscere a New York. Il segreto è, dopo averlo preparato, di lasciarlo in frigorifero tre o quattro giorni, in modo che la salsa si rapprenda e la carne diventi tenerissima. Poi si taglia a fettine molto sottili.