Si preannuncia con un rumore sordo, quasi l’eco di un lontano terremoto, la nuova creazione di Marco Martinelli e Ermanna Montanari dal bel titolo verdiano Va pensiero. E un terremoto effettivamente c’è stato in quelle terre emiliane che fanno da sfondo alla vicenda, che anzi ne sono un fondamentale elemento costitutivo. Terra dove un tempo anche i crocifissi parlavano, dice il coro guardando alla pianura dove ora il cemento si allarga e l’aria si avvelena. E non è difficile pensare al paese di Don Camillo e Peppone, ai corpi di Fernandel e Gino Cervi nella fortunata trasposizione cinematografica dei romanzi di Guareschi. Ogni riferimento a fatti o persone non è puramente casuale, verrebbe da dire. E infatti pare di ricordare che forse da qualche parte si era letto del cartello «chiuso per mafia» appeso fuori da un bar dai proprietari non disposti a pagare il pizzo – ma no, non è possibile, non scherziamo, la mafia in Emilia non c’è.

Siamo nel primo decennio del secolo. In paese c’è una sindaca, lei però pretende di essere chiamata sindaco, anche se per i compaesani è semplicemente la zarina. Figlia ed erede controvoglia dell’uomo politico che per più decenni ha retto il potere con il pugno del vecchio stalinista. Ora ci stanno anche i «calabresi» arrivati in regione sulla scia dei sorvegliati speciali di un tempo, anche bei nomi come Tano Badalamenti o Francesco Schiavone detto Sandokan, tocca di nuovo al coro ricordarceli. E poi c’è il vigile urbano Benedetti, che stanco di Milano è tornato nel paese d’origine per far crescere il figlio in un posto migliore e coltiva una testarda vocazione giornalistica che lo porta a trovarsi di traverso dove non dovrebbe. Per esempio quella storia dei tumori, certo un’esagerazione, ma lui si rifiuta di smentirla. E gli abusi edilizi, una questione in fondo di poco conto, con l’opposizione che è pronta a far fuoco…

La drammaturgia di Martinelli torna a confrontarsi con un tema civile e con la scrittura in prima persona che ne è l’essenziale corollario, come ogni tanto gli è necessario. Con la vena grottesca che gli è cara, quella che viene dai maestri frequentati, Aristofane e Jarry fra tutti. Però passata al vaglio, la drammaturgia, dalla tensione corale impressa da qualche tempo al lavoro dell’ensemble di Ravenna, da ultimo l’Inferno dantesco realizzato in estate nella forma della rappresentazione popolare. Non è un caso che accanto agli attori storici delle Albe (Alessandro Argnani, Roberto Magnani, Alessandro Renda) siano presenti qui interpreti provenienti da altre geografie, come Ernesto Orrico che è l’uomo della ’ndrangheta o la divertente Mirella Mastronardi.

Ma è soprattutto il coro lirico che compare dietro il velatino di fondo a dare allo spettacolo la giusta scansione, con le arie verdiane che esplodono trascinate da un armonio. Al centro della scena (al teatro Storchi, lo spettacolo è coprodotto da Ert) sta invece un basso palchetto che è il luogo della commedia, si potrebbe dire, con gli arredi che vanno e vengono a vista, la scrivania della sindaca, lo studio della consulente finanziaria collusa… La vicenda ruota intorno a uno sgangherato episodio di speculazione, terreni destinati alla costruzione di una centrale elettrica.

C’è aria di epica brechtiana, in quest’opera da tre soldi in cui sembrerebbe così facile scegliere da che parte stare. Sarà per tutto quel che sta intorno alla commedia, quel che non sale sul palco ma lo commento, o per quei cori sottolineati dai titoletti proiettati sul fondale. Che tutto sia un poco più ambiguo, meno facilmente decifrabile, lo lascia intendere la protagonista, la zarina Ermanna Montanari, con quei suoi notturni malesseri. Sicché quando alla fine si accendono le luci in sala e parte un Va pensiero che coinvolge anche il pubblico emiliano, c’è quasi un sottile sentimento liberatorio.