Apparentemente trasparente, nella anamorfosi che subiscono paesaggi, oggetti e persone filtrate dal suo sguardo, la scrittura di V.S. Naipaul tradisce una angoscia che a volte egli stesso nomina, sebbene di sguincio. La nomina, per esempio, alludendo al suo primo romanzo e alla deformazione ironica che prende il proprio lutto per la morte del padre, prima manifestazione di quel Dolore che dà il titolo a un suo racconto pubblicato sul «New Yorker» lo scorso gennaio, e ora tradotto da Matteo Codignola per la collanina digitale «Microgrammi» (pp. 32, € 1,99), varata dalla Adelphi per far fronte alla chiusura della filiera del libro, nella emergenza coronavirus.

Quella stessa centralità del proprio ego che si riverbera prepotentemente sui tanti dettagli estrapolati dai suoi viaggi, animando anche le ombre di quanto Naipaul osserva, quello stesso protagonismo del suo Io che lascia su ciò che tocca una sorta di piegatura violenta, una arricciatura indisponente, una avvincente ribellione all’evidenza, gli ha dettato due anni prima di morire il resoconto di tre perdite, l’ultima quella di un gatto, cui è sembrato bastare, per assumere la dignità di racconto, il suo provenire dalla penna di un Nobel per la letteratura.

Naipaul era già in Inghilterra quando il padre venne prepensionato dal «Trinidad Guardian» e passò ad appassionarsi alla scrittura di testi umoristici. Con i compensi derivati comprò, in «un soprassalto nazionalista» che il figlio non aveva apprezzato, un vaso indiano di ottone, del quale il giovane Naipaul sarebbe entrato in possesso solo dopo i funerali del padre.

La seconda perdita fu quella del fratello Shiva, e la terza, amorevolmente accompagnata nella malattia che l’aveva preceduta, quella del gatto Augustus, la più sofferta e la più partecipata dall’autore, celebre campione di misantropia, coerentemente devoto a tutte le specie animali salvo quella cui appartiene.
La sua famiglia era emigrata due generazioni prima dalla pianura del Gange e insieme a diversi esuli indiani aveva fondato dall’altra parte del mondo, a Trinidad, una comunità «più omogenea di quella che Gandhi conobbe nel 1893 in Sudafrica, e più isolata dall’India»: così Naipaul ne parlò in Una civiltà ferita, quando la sua scrittura era ancora in grado di fare presa – gli disse un amico – «come la frusta che si avvolge intorno a un bastone». La vecchiaia lo coglie, nel racconto titolato «Dolore», nostalgico, inorridito per il «virus orribile» che si è insediato nel corpo sempre più spelacchiato del felino Augustus, cui va una benvenuta commozione, forse mai espressa prima per un essere che abbia animato le sue pagine.