Nella sventura di una pandemia che costringe gran parte degli abitanti del pianeta all’interno del perimetro domestico, una nuova edizione del più bel romanzo sulla casa scritto negli ultimi decenni offre l’opportunità di riconsiderare l’ampia costellazione di significati e valori legati all’esperienza dell’abitare.

Appena ripubblicato da Adelphi nell’elegante traduzione di Franca Cavagnoli, forse meritevole di venire aggiornata (pp. 566, € 14,00), Una casa per Mr Biswas è il romanzo migliore di V.S. Naipaul nonché l’opera che lo ha consacrato nel ruolo – da lui pervicacemente rifiutato – di voce più rappresentativa della diaspora indo-caraibica. Gli esiti di questo rifiuto sono tanto noti quanto paradossali: da un lato l’accusa di alto tradimento della causa del postcolonialismo, mossa da scrittori e intellettuali del calibro di Chinua Achebe e Edward Said; dall’altro il cavalierato della regina e il Nobel per la letteratura nel 2001, per avere «scritto opere che ci costringono a fare i conti con le storie represse».

Benché Naipaul abbia perspicuamente illustrato il percorso che dalla subalternità coloniale lo ha proiettato verso «la civiltà universale» che si è espressa nelle più importanti conquiste dell’Occidente, Una casa per Mr Biswas resta l’opera che dà meglio conto di questo passaggio. Pubblicato nel 1961 a ridosso di altri due romanzi di argomento caraibico scritti nel primo decennio londinese (Il massaggiatore mistico e Miguel Street), Biswas rappresenta l’apice e allo stesso tempo il superamento della duplice condizione di migranza che, a partire dall’India degli antenati, ha ricollocato Naipaul dai margini più remoti e circoscritti dell’isola di Trinidad al centro geografico e culturale dell’impero britannico nei primi anni Cinquanta. Attraverso il filtro falsamente anestetizzante di una comicità definita «isterica» dal suo stesso autore, il romanzo racconta la genesi di quella «doppia coscienza» (parole di W.E.B. Du Bois) che caratterizza l’esperienza dei soggetti coloniali irresistibilmente attratti nel campo gravitazionale della cultura dominante.

La storia è annunciata nel Prologo e spogliata dell’effetto sorpresa, che può così annidarsi altrove: Mr Biswas, quarantasei anni, nipote di un bracciante emigrato dall’India ai primi del Novecento per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero, appena licenziato dal «Trinidad Sentinel» per malattia, si compiace di poter morire affettuosamente accudito da moglie e figli in una modesta ma dignitosa casa di proprietà sita in Sikkim Street a Port of Spain, sulla quale grava un mutuo residuo di tremila dollari.

L’uomo ha passato la vita in decrepiti alloggi messi a disposizione dai parenti, dai quali è sempre stato costretto a fuggire coltivando il sogno di una casa tutta sua; la morte nell’abitazione di proprietà rappresenta dunque la sua maggiore rivincita su un destino che sembrava averlo condannato a una perpetua ed entropica migranza. «La sua casa. Sarebbe stato tremendo, ora, esserne privati: morire tra i Tulsi, nello squallore di quella famiglia enorme, indifferente e in disfacimento; lasciare Shama e i figli con loro, in una sola stanza; peggio ancora, vivere senza nemmeno provare a reclamare per sé una porzione della terra; vivere e morire come si nasce, superflui e senza un tetto».

Senonché la sorpresa, negata dal prologo serio che anticipa il finale e prefigura un classico racconto di formazione, interviene nel momento in cui, già dal primo capitolo, la narrazione vira verso la tonalità comica e picaresca, per annunciare la nascita podalica, in una misera capanna di fango, di un gracile bambino con un dito di troppo, destinato a causa di questa malformazione ad attirare la sventura su tutta la famiglia. Con gesto apotropaico il pundit del villaggio suggerisce di chiamarlo Mohun in omaggio a Lord Krishna, ma per il narratore egli sarà sempre ed esclusivamente «Mr Biswas».

Gran parte degli effetti straordinariamente comici del romanzo è affidata a questa fissità identificativa della voce narrante, che attribuisce al protagonista l’appellativo di rispetto sin da quando è ancora in fasce, mantenendolo inalterato anche quando, consapevolmente o meno, questi se ne dimostra del tutto indegno – ad esempio allorché, a casa del bramino presso il quale sta facendo un apprendistato, Mohun getta dalla finestra un fazzoletto pieno di feci espulse all’improvviso, a seguito di una severa punizione corporale che prevedeva il trangugiamento dell’intero casco di banane che il ragazzo aveva involontariamente contaminato; oppure quando, già intrappolato nella tentacolare residenza dei Tulsi, il giovane e sprezzante marito fa i gargarismi affacciato alla finestra, sputando sul cibo degli odiati nipoti della moglie.

Allo stesso tempo, la ridondanza dell’appellativo di rispetto grammaticalizza il desiderio ossessivo di riscatto sociale che per Biswas si realizza soltanto alla fine, attraverso l’accesso alla casa di proprietà: che nel titolo inglese è «house» e non «home», giacché la memoria delle buie capanne di fango inglobate nelle soffocanti paludi caraibiche, o delle squallide baracche «che ospitano dodici famiglie in un unico stanzone di legno», si esorcizza soltanto con la titolarità di una porzione di terreno urbano e col possesso di muri di mattoni all’interno dei quali collocare in modo definitivo i pochi beni scampati ai continui traslochi.
Come Robinson Crusoe, Biswas è un sopravvissuto alla morte per acqua, che è diventato un feticista degli oggetti, ai quali si aggrappa in cerca di solidità e rassicurazione. A differenza di Robinson, però, Biswas non riesce a utilizzare le proprie risorse per ricostruire un ordine del mondo, e i lunghi cataloghi di mobili e suppellettili che transitano da una casa all’altra diventano, grazie allo straniamento beffardo del narratore che vocalizza l’autoritaria pedagogia coloniale, nient’altro che inventari della sua ‘colpevole’ indigenza.

Eppure, a dispetto delle apparenze, quello di Biswas è un mondo ricchissimo e quasi satollo. A saturarlo di riti e di miti, di talismani, presagi, rivalità, scontri fisici e scene melodrammatiche provvede lo sconfinato clan induista dei Tulsi che gli arriva in dote (l’unica peraltro) dalla moglie. Contro la pletora di parenti acquisiti – tutti rigidi osservanti della puja mattutina, tutti indistintamente assoggettati a un matriarcato che usa gli uomini come forza lavoro a bassissimo costo e misura il proprio potere sui figli a suon di mazzate – Biswas ingaggia sin dall’inizio un epico scontro di civiltà che viene combattuto dentro e fuori la «massiccia, inespugnabile, impenetrabile e bianca fortezza» di Hanuman House.

La resa tragicomica di questa lotta senza quartiere tra la confusa promessa di modernità, che abbaglia il cittadino delle colonie, e l’irredentismo culturale di una diaspora indiana, che non rinuncia alla patria immaginata, basta da sola a includere il romanzo nel canone dei capolavori del ventesimo secolo – così come nella grande tradizione del realismo comico che conta scrittori quali Shakespeare, Rabelais, Gogol e Dickens.

A fronte dell’aumento esponenziale della quota di «marginalità esibita» (Huggan) in tanta letteratura postcoloniale di ultima generazione, incentivata da un’editoria internazionale sempre a caccia di nuovi esotismi, la rilettura di Una casa per Mr Biswas consentirà una boccata d’aria fresca persino ai lettori meno solidali con l’indomito etnocentrismo di Naipaul.